C’è un passo memorabile nel Dom Juan di Molière: il momento in cui Elvira riesce a guardare l’amante in modo del tutto diverso. Elvira è anche la stenografia, approntata da Brigitte Jacques, degli insegnamenti di Louis Jouvet, lezione-spettacolo (in Italia recentemente trasposta da Toni Servillo) che si sofferma proprio sull’interpretazione di questa scena. Riapparsa trafelata a casa, la moglie invita Don Giovanni a un cambio di direzione nella sua condotta. Ma quest’ultimo parla ancora con doppiezza, e con malcelata ironia le propone di restare. Non ha capito nulla. La donna che ha ripudiato e adulterato, è ora lì senza alcun condizionamento umano. Sta vivendo lo stato interiore tipico di una soggettività al di là dell’io «murato». L’apertura estatica che lei offre e a cui l’eroe dissoluto non riesce ad accedere, è l’unica vera occasione persa della sua vita.
Nel 1983 Mario Luzi pubblica Rosales, dramma ispirato alla figura molieriana e all’assassinio di Trotzky. Cosa unisce i due personaggi? Lo spiega lo stesso autore in un’intervista di Gloria Piccioni risalente al 1981, oggi reperibile su Succedeoggi: «Non so bene come ho congiunto le cose: deve aver agito il fatto che quando Trotzky fu assassinato, tra le varie ipotesi ci fu anche quella di un killer playboy prezzolato. Don Juan Rosales – è così che chiamo Don Giovanni perché ho voluto che si capissero i personaggi storici a cui mi riferisco ma adombrando piuttosto che direttamente mostrando – viene coinvolto nella congiura contro Trotzky. In lui sta avvenendo una trasformazione: la luce di una nuova dimensione data dal sentimento che nutre per la giovane figlia di una donna che ha offeso». Insomma, un Dom Juan uscito da sé, il quale prende finalmente coscienza – in un tempo lontano e astorico – delle parole di Elvira.
Tutto quanto il Teatro di Luzi, riunito per la prima volta in un solo volume a cura di Paola Cosentino (Garzanti «I grandi libri», pp. 812, € 32,00), è giocato sul concetto di trasformazione nel solco di Testori, almeno dal punto di vista semantico. Poiché si tratta, secondo Del Corno, di un «teatro dell’interiore» e in particolare della controversia etica, le parti diegetiche si risolvono periodicamente in cristallizzazione situazionale. Come ha rilevato Blasucci per il Leopardi delle Operette morali, i personaggi non sono «caratteri realisticamente individuati», bensì «movimenti alterni dello spirito dello scrittore»: la trafila può valere anche per le figurazioni luziane, fautrici di una riscoperta del poetic drama – sulla scorta del modello eliotiano – che Raboni ha giustamente ricondotto a una versificazione (il teatro di Luzi è appunto in versi) «prosastica solenne». Il sermo merus, additato da Verdino, crea invece la costante ricerca della verticalizzazione lirica quale spettro di un estremo concentrarsi di temi.
«La proposta – suggerisce Paola Cosentino nell’introduzione – appare dunque anacronistica: allontanandosi dallo sperimentalismo oscuro ed enigmatico di Pasolini, che ricorre al mito per riscrivere il presente, il poeta toscano sceglie la tragedia per rinnovare una forma antica e per sottolineare l’importanza degli aspetti formali, dei dialoghi affidati alla parola poetica, dell’enunciato che precede e dice l’azione». Cosentino avvicina l’esperienza drammaturgica di Luzi – i cui primordi sono da ravvisare comunque nella lirica agonica di Nel magma – al piglio cattolico di Bernanos, Claudel e Mauriac, filtrati dal modello tragico e sublimante di Racine. Se nel Libro di Ipazia (1978), prima grande prova teatrale, prevale il dibattito sulla cultura nell’Alessandria del V secolo d. C., Hystrio – certamente il maggior lavoro, di nove anni successivo – divarica il plesso mentale, di forte incidenza politica, della dissimulazione (come non ricordare l’atteggiamento psicologico di Domiziano segnalato da Tacito nell’Agricola?) che pervade l’anziano tiranno Berek e lo stesso Hystrio, invischiati nella complessa trama di un’autodeterminazione tra recita e potere.
Ancora una volta la risposta del poeta di Castello è nella trasmutazione dell’elemento femminile: Giulia, figlia di Berek, affascinata dal temperamento atrabiliare di Hystrio, si sacrifica perché riesca a prevalere il valore dell’autenticità. Lei appartiene alla schiatta di eroine – Elvira, Angelica, la Giovanna del Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini – che perpetuano con la sola presenza la «vita fedele alla vita» grazie al loro «pensiero dove la morte manca» (un verso di Frasi e incisi di un canto salutare indirizzato ad Angelica, forse il più bel complimento che si può rivolgere a una donna). Del 1999 sono, invece, due testi molto vicini per il tema religioso: l’Opus florentinum, dedicato alla costruzione di Santa Maria del Fiore, e La passione. Via Crucis al Colosseo, commissionato da Giovanni Paolo II, non inserito nel libro. Entrambi confermano la vocazione euripidea delle drammaturgie luziane e sollecitano una riscoperta di questo progetto di lavoro, che il volumetto della Garzanti ha il merito di riportare all’attenzione in un periodo così critico per l’arte teatrale.