Se l’etichetta «poeta multiforme» ha ancora un senso – in un momento storico nel quale si tende ad appiattire il linguaggio, finanche quello lirico, e più in generale ad azzerare il numero delle esperienze stilistiche –, lo stigma si adatta a Mario Luzi meglio di ogni altro autore del secolo scorso. Il «terzo tempo» di Montale (da Satura in poi) è, per ammissione dello stesso interessato, l’effetto della mano del giornalista sulla materia poetica. Il «secondo mestiere», con impulso decisamente osmotico, entra nel «primo» e lo permea. E questo cambiamento di modi e strategie, in un percorso fino ad allora, almeno esteriormente, privo di grandi sterzate (è noto che «Eusebio» intendesse la sua intera opera come un continuum e Satura, in particolare, come il verso di un libro di cui sino ad allora aveva fornito solo il recto), sembra rientrare comunque in un preciso progetto petrarchesco di continuità: nessun sussulto, nessuna strigliata o negazione, ma soltanto una lunga, imponente ricapitolazione – con tinte metapoetiche e cavalcantiane – della «veduta forma».
Una frase proprio di Montale riferita a Dante può illustrare, invece, l’irriducibile e diversa linea compositiva operata da Luzi: «Che la vera poesia abbia sempre il carattere di un dono e che pertanto essa presupponga la dignità di chi lo riceve, questo è forse il maggior insegnamento che Dante ci abbia lasciato». Come quest’ultimo, Luzi «volle essere poeta e nient’altro che poeta», ambì cioè a esplorare tutte le possibilità del dicibile, risolvendo la sua attività in un’avventura dello stile, senza dubbio di difficile esercizio. Se in Montale riconosciamo lo «scabro ed essenziale» degli Ossi di seppia, il «teologico» delle Occasioni e della Bufera e altro, lo «scettico-nichilista» (meglio: lo «scettico-pirroniano») delle opere successive, esiste il Luzi «ermetico» della Barca, lo «stilnovista» e «orfico» del Quaderno gotico che vuole «conoscere per ardore», il «simbolista» di Primizie del deserto, il «teatrale-narrativo» di Nel magma, lo «spiritualista» di Per il battesimo dei nostri frammenti, il «paradisiaco» di Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini. E ciò detto per sommi capi. Luzi, come Montale e certamente più di Caproni e Sereni, ha incarnato l’ideale del poeta di respiro europeo, capace di metamorfosi, trasmutazioni sorprendenti, cambiamenti di marcia, spinte oltre ogni possibile linea di demarcazione.
Questo è il senso del volume miscellaneo, a cura di Alberto Comparini, Mario Luzi poeta del Novecento Modernismo, lirica, ermeneutica (Quaderni del ’900, Fabrizio Serra editore, pp. 224, € 90,00), volume che tenta di «ristabilire una corrispondenza tra la res cogitans e la res extensa della realtà (lirica ed empirica) che il poeta fiorentino ha ricercato per tutta la vita». Comparini ci tiene, giustamente, a sottolineare il carattere sovranazionale dell’opera luziana, presentando i singoli contributi come frammenti di studi – si va dalla comparatistica alla teoria letteraria – legati dal fil rouge dell’intertestualità: Dante, Petrarca, Hölderlin, Mallarmé, Eliot e Pound (il cosiddetto classicismo modernista), ma anche la soggettività della gioia e la polis intesa come stratificazione semantica. Si pensi a una prosa luziana dedicata ad Ascoli, città della moglie Elena Monaci, riportata da Anna Marra nel suo saggio: «Lungo le strade e i suoi vicoli andavo riconoscendo le tracce di quella civiltà comunale e feudale, la grazia rustica del romano, l’energia nitida del gotico e l’armonia castigata dei secoli rinascimentali, affollati su quella pietra calda e spessa che è il travertino». La civitas, come emblema di «luoghi noti» e «fatti irreali», cela in sé il germe metaforico di Gerusalemme celeste, di patria cosmica, anzi di «matria», secondo una bellissima definizione coniata da Luzi. Nondimeno, il rimpatrio e l’accoglienza nella luce suprema sfidano, come nota Fabrizio Scrivano, «i differenti momenti della coscienza che il tempo produce naturalmente».
Il coup de foudre rimane sempre per la «vita fedele alla vita», espressione adamantina che meglio riassume l’universalismo leopardiano (redento) di Luzi, gettato nella mischia al «fuoco della controversia», poi ripresentato sotto i profili sorgivi della «poetica dell’interrogazione» e dell’agone dialogico. Tutto purché la parola, in qualità di Logos, attesti il «fare» della poesia, la traccia creativa dell’atto linguistico rivolto alle sue conseguenze ultime. L’europeismo letterario di Luzi sta proprio in questa spinta inesauribile verso l’estremo che determina più certi confini e limiti alla lingua e, in parte, ne rimpasta quasi ex novo il dettato. Simile ai grandi fabbri del parlar materno, il poeta di Castello ha saputo proporre e imporre una modulazione lirica in grado di entrare nel gergo quotidiano. Ciò anche in ragione della sua estrema competenza teoretica, come si può osservare in appendice nelle note saggistiche riportate da Stefano Verdino, nel carteggio inedito con Bo – definito affettuosamente «Carlino» – e in una conversazione sulla destinazione ultima della poesia.
Di ottobre è il primo numero della rivista internazionale di studi su Luzi e il suo tempo, «Luziana», pubblicata sempre da Fabrizio Serra in collaborazione con l’Associazione Mendrisio Mario Luzi Poesia del Mondo. Un’altra importante iniziativa che tiene vivi l’interesse e la memoria di uno dei maggiori autori del Novecento… europeo, appunto.