La luce eterna è quella divina e quella del cinema, entrambe inseparabili dalle fiamme infernali, dalle tribolazioni e il dolore: si apre su un catalogo di strumenti di tortura della santa inquisizione Lux Aeterna di Gaspar Noé, presentato fuori concorso a Cannes, e con le immagini del rogo dell’anziana «strega» di Dies Irae di Dreyer: l’attrice dovette passare due ore legata al palo affinché la scena del suo supplizio venisse perfetta. Una citazione del regista danese – chiamato per nome nel film di Noè come anche «Jean-Luc» e «Rainer W.», oltre a tutto il cast – spiega che il cinema deve trovare il modo di elevare ad arte un prodotto dell’industria. A che prezzo, e quale follia infernale si agita sul set, nel mondo brulicante dietro la macchina da presa?
Charlotte Gainsbourg e Beatrice Dalle, entrambe nel ruolo di se stesse, parlano sedute davanti al camino delle loro esperienze – con attori, produttori, sui set – finché non scopriamo che sono su un set anche loro: quello del primo film da regista di Beatrice, incentrato proprio su delle «streghe» postmoderne che vengono bruciate sul rogo. Dopo la stasi iniziale tutto è in perenne movimento fra stanze, camerini, lo studio dove è stato ricostruito una sorta di Golgota dove due modelle e Charlotte Gainsbourg – vestite con gli abiti di Saint Laurent, che ha commissionato il film di Noè – dovranno venire legate al palo per il rogo, ricreato su uno schermo alle loro spalle.

IN QUESTO labirinto di stanze Charlotte è inseguita da un ragazzo di Los Angeles che la vuole in un suo film, cerca di capire cosa sia successo alla figlia che si è fatta male a scuola, è interrotta da un critico che si dichiara suo ardente ammiratore, strattonata da un posto all’altro. Parallelamente – il film è quasi tutto in split screen – Beatrice scivola sempre più nella follia mentre il produttore cerca di sottrarle il film che sta girando per affidarlo a un altro regista. E il set sembra assumere una vita propria nel caos di comparse, imbucati, grida e litigi.

GIRATO come un documentario allucinato in cui si moltiplicano gli sguardi – la telecamera che tampina Beatrice, la macchina da presa del nuovo regista, la steadycam sempre in movimento che segue le protagoniste – Lux Aeterna ha la stessa qualità angosciante e allucinata di Climax e accumula in soli cinquanta minuti di durata l’essenza di un «incubo meraviglioso», quello del cinema. Portando deliberatamente oltre la soglia di tolleranza lo stesso coinvolgimento dello spettatore – investito dalle luci stroboscopiche che nel finale avvolgono Charlotte nel suo interminabile supplizio fra finzione e realtà.