Racconta Amir Naderi che Monte (in sala dal 29 settembre), il suo nuovo lavoro presentato Fuori concorso (inspiegabilmente) alla Mostra voleva essere un film sulla vita e sull’Italia che ogni giorno cambia. «Venezia è casa mia (è stato spesso in gara e non solo qui negli anni passati, ndr), ho girato nel vostro Paese perché volevo essere vicino alla vostra tradizione cinematografica… Ci ho provato tante volte e adesso è successo. Tutti perseguono un obiettivo, non bisogna rinunciare, il mio messaggio è la sfida, e una volta che si è raggiunto si deve condividerlo con gli altri…» ha detto il regista. Ma i suoi film dagli anni iraniani del Corridore fino ai più recenti americani come Marathon o Vegas (in concorso a Venezia nel 2008) nascono tutti da un’ossessione che diventa una sfida, il paesaggio interiore, sonoro e visivo del suo magnifico cinema, il gesto esistenziale che si ripete testardo mettendo a rischio ogni parte di sé e che conduce i personaggi verso un altrove.

Una ricerca, una trasformazione, quel movimento che è la natura stessa del cinema.

E una sfida è anche Monte che Naderi, appunto, ha girato in Italia (produttori Citrullo International e Zivago Media per la parte italiana) a cominciare dalla sua realizzazione, un set a 2500 metri di altezza sulle montagne dell’Alto Adige e in Friuli che rende vivi e plasticamente «veri» la fatica, la battaglia tra l’uomo e la natura che lo sovrasta. Siamo in un medioevo lontano, Agostino (Andrea Sartoretti) è un contadino condannato da una terra sterile dove non batte mai il sole. Un’oscurità che impedisce alle piante e agli animali di crescere, agli umani di vivere.

La sua piccola comunità è sterminata dalla fame e dalla miseria, lui e la moglie Nina (Claudia Potenza) hanno perduto la figlioletta, gli è rimasto il ragazzo, Giovanni, silenzioso e pieno di dolore. Gli altri se ne vanno, stanchi di seppellire morti e di piangere e di essere guardati come stregoni dagli abitanti del villaggio che li pensano causa di disgrazie. Lui però, Agostino, non vuole cedere, quella è la terra dei suoi padri, vuole lottare, conquistare a costo di impiegarci l’intera esistenza quel sole che la natura gli ha negato, spaccando da solo, con due martelli che gli rompono le mani, la roccia della montagna.

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L’uomo e la natura. Ma se nei film contemporanei la presenza del mondo «animale», il bosco, l’acqua, disegnano uno stato d’animo, la geografia sentimentale di un romanzo di formazione e di un attraversamento esistenziale, Naderi lavora invece sul conflitto, la sua è una natura ottocentesca antagonista, metafora di una lotta anche di classe, culturale, contro l’oppressione che le credenze e gli opportunismi fanno passare per maledizione.

Non c’è un dio o un miracolo nella battaglia di Agostino, una figura che è un atto d’amore per il cinema rosselliniano. Esiste solo la sua dimensione di uomo che attraversa il tempo e la sua epoca cercando questa luce fino alla commozione. E poco importa se per mantenere viva la sua utopia, che è anche una splendida dichiarazione politica e poetica di cinema, questo personaggio e la sua compagna, anche lei determinata nell’essergli accanto, possono «sacrificare» il tempo di una vita, la loro. Perché non si tratta di «sacrificio» ma di resistenza, un allenamento che mette in gioco tutti i nervi, i muscoli, ogni centimetro del cuore e del corpo, pure se le dita si spezzano sotto il peso della roccia, e si rischia di impazzire.

Le immagini di Naderi, anche quando come in questo film sono all’interno di una scrittura quasi «preparativa» che ci dice di un passato remoto la cui filigrana si riflette sul nostro presente, guardano alla pittura di quel tempo e insieme racchiudono nei chiaroscuri plastici la profondità universale della realtà umana.

La donna, l’uomo e il ragazzo al di là dell’epoca in cui vengono narrati incarnano il respiro di una storia umana e delle sue contraddizioni e violenze: razzismo, persecuzione, sopraffazione, condanna di una diversità non riconducibile a quello che è il «buon senso» della comunità sia esso nell’ordine della legge o della religione, o del denaro o ancora della di una superstiziosa ostentazione dei propri convincimenti impermeabile all’ascolto delle ragioni diverse di un altro.

Condannati dal cono d’ombra Agostino, Nina e gli altri sono maledetti e non possono trovare uno spazio nella società se non si uniformano alle regole del controllo sociale. Ma la sfida è questa, provocare un cambiamento, bucare le regole – secondo natura – seguendo il loro desiderio.

C’è qualcosa di maestoso nel cinema di Naderi sia che si aggiri con un budget indipendente nella metropolitana newyorchese che film sulle cime impervie dei monti. E non è semplicemente l’ idea della sfida che si traduce sempre spingendo all’estremità la sostanza stessa delle sue immagini e i corpi che le abitano.

È quel racconto della realtà che si srotola film dopo film seguendo linee oblique, prospettive inconsuete, e soprattutto la tensione tra desiderio e controllo, la pulsione vitale di sognatori ribelli che non rifiutano di piegarsi nonostante tutto. Agostino, Nina e Giovanni si troveranno in mezzo al nulla, solo pietre, grigio e polvere (la fotografia del film molto bella è di Roberto Cimatti) per riprendersi ciò che gli è negato, il diritto elementare della luce. E insieme a loro anche il film abbandona gli elementi più narrativi per divenire suono, il rimbombo del martello sulle pietre, grida, fatica, dolore, mani che sanguinano fino al finale commuovente di una conquista che non è scontata. E di un cinema unico, sempre più raro, che sfugge alle mode e alle definizioni continuando a rivendicare la unicità del proprio sguardo.