«Il senso della crescita culturale di un paese è che attraverso di essa si ha la possibilità di continuare a rinnovarsi»: questa lungimiranza spinse, nel 1966, il sindaco-postino danese, con la quinta elementare, Kaj K. Nielsen a far sì che Holstebro diventasse la casa di uno dei più significativi gruppi teatrali del Novecento, l’Odin Teatret. Qui il suo fondatore Eugenio Barba e il resto del gruppo creano la loro sede dove lavorare e vivere insieme rivoluzionando per sempre il linguaggio teatrale.
L’Odin trasforma un’ex fattoria in un centro di ricerca – che oggi ha circa cinquanta posti letto per poter anche ospitare, tre cucine e altrettante sale prove – dove gli artisti, imperterritamente, proseguono il loro lavoro. E qui Barba ha aperto le porte a due registi, Davide Barletti e Jacopo Quadri, che per tredici giorni hanno potuto seguire l’allestimento di una grande festa che l’Odin organizza ogni tre anni a Holstebro e che coinvolge tutta la città. Un’apertura di credito che rappresenta un evento più unico che raro.

La festa mostra il senso del teatro «sociale» di Barba, cioè l’attitudine verso l’altro, ed è un modo per ripagare la città dell’ospitalità. Un baratto, secondo la poetica dell’Odin. Ma quella in questione, nel 2014, epoca delle riprese, è particolarmente gloriosa perché festeggia i 50 anni del gruppo (fondato in Norvegia nel 1964) mettendo insieme artisti e gruppi provenienti da tutte le parti del mondo come Kenia, Bali, Brasile, India, e anche Europa; culture di cui il linguaggio dell’Odin si è sempre nutrito in un flusso transculturale che ne rappresenta tutt’oggi l’unicità.

Nasce così Il paese dove gli alberi volano prodotto da Fluid produzioni e Ubulibri con il sostegno dell’Apulia Film Commission. Il film, distribuito da Wanted, sarà presentato l’11 settembre al Festival di Venezia come progetto speciale alle Giornate degli Autori e poi in primavera andrà in onda su Sky Arte HD.
«Ho contattato Barba per fare il documentario ma all’inizio lui insisteva perché intervistassimo il ‘popolo segreto’, cioè un insieme di persone vicine alla compagnia, una specie di rete mondiale. Aveva scritto persino le domande» ci racconta Quadri, «si tratta di un popolo ideale, che non esiste, un’utopia come un po’ il lavoro dell’Odin. Ma è un’utopia che si può realizzare. La festuca per l’anniversario riuniva tutte queste persone con cui c’è uno scambio creativo continuo. Compagnie di ragazzi di varie parti del mondo hanno portato pezzi di spettacolo che lui ha cucito insieme. Lui si muoveva continuamente andando anche a 30-40 chilometri di distanza dove alcune compagnie alloggiavano e ci ha concesso di seguirlo nelle prove e anche nei suoi spostamenti in macchina. Quelli sono i momenti più intimi».
Figlio di Franco, critico e studioso di teatro tra i più influenti e rigorosi, Jacopo ha ereditato dal padre la casa editrice Ubulibri della quale questo lavoro rappresenta la prosecuzione ideale. «Nel percorso post Franco ho provato tante strade per trovare finanziamenti e anche una testa che dirigesse la casa editrice, poi ho pensato che l’unico modo era di avvicinarla a quello che faccio io, cioè il cinema (Jacopo è montatore con un curriculum che va da Bertolucci a Martone e Bechis passando per Virzì, ndr)».

Prima aveva realizzato il documentario La scuola d’estate ambientato alla scuola di Santa Cristina di Luca Ronconi. Due scelte apparentemente antitetiche: «Intanto per mio padre erano due punti di riferimento perché lui si riferiva al teatro nella sua totalità. Mentre io mi sono accostato al teatro tardi, dopo la sua morte, quindi con un approccio abbastanza ingenuo: partivo dalla persona e per me Barba è sempre stato un mito. L’ho conosciuto a 14 anni quando passammo per Holstebro a trovarlo, è un ricordo infantile molto forte». Per il regista Davide Barletti la motivazione della scelta è diversa e complementare: «Io, come Barba, sono pugliese e lavoro sulla memoria della mia terra, in questo senso la sua biografia è emblematica: negli anni Cinquanta lascia la Puglia e va a fondare l’Odin in Norvegia. Poi nel ’74 il passaggio dell’Odin a Carpignano salentino con le sue rappresentazioni basate sul baratto è rimasto leggendario. Ora ho avuto la possibilità di andare all’Odin, una leggenda». Aggiunge Quadri: «Eravamo esaltati da quello che avveniva, era impossibile seguire tutto ma cercavamo di essere invisibili per essere accettati, cosa che è avvenuta quasi subito, Barba ci disse ‘sarete come le mosche’ che danno fastidio e ci sono sempre. L’Odin più che un teatro è un luogo dove vivere, dove incontri gente continuamente. Il teatro è la vita. Lì anche organizzare la cena è un atto teatrale».

Ma come conciliare un mezzo riproducibile come il cinema con il teatro? Risponde Barletti: «In teoria i due mezzi cozzano e infatti all’inizio c’era pregiudizio perché raccontando il teatro al cinema si teme di falsare l’unicità. Questa è stata la sfida, far incontrare due mondi, per questo abbiamo deciso di non intervenire con artifici soprattutto al montaggio, non usare scappatoie per raccontare. Tutto quello che abbiamo raccontato è avvenuto» inoltre, aggiunge, «avevamo due alternative: costruire il classico biopic o fare, come avvenuto, un film politico, intendo un film sul rapporto tra Odin e il territorio, la relazione con il tessuto sociale ma anche le relazioni umane, la grandissima energia. La cosa più complicata è stata la paura di raccontare un mito, di rompere l’alone leggendario che lo circonda». Per Quadri, come emerge anche dal documentario, ciò che conta è l’oggi «ci interessa il presente e non il passato, non abbiamo usato immagini di repertorio né abbiamo ricostruito i 50 anni dell’Odin ma siamo andati là, perché là lui stava creando. A noi interessava documentare quello che stava avvenendo in quel momento». Il lavoro documenta un incontro di culture ma anche umano, lo stupore di giovani danzatori africani che per la prima volta assistono a un balletto europeo, la commozione degli artisti brasiliani e di Barba nel ricordare uno di loro approdato all’Odin e ormai scomparso. Accanto attori storici come Iben Nagel Rasmussen e Julia Varley mentre stirano, sistemano e illustrano agli ospiti i costumi di scena. «L’Odin è una grande macchina, con una capacità di lavoro enorme – racconta Barletti – per esempio in questo caso hanno dedicato a ognuno una lettera personale, un regalo e posto attenzione a dove alloggiavano i diversi gruppi ospitati dalle scuole del circondario, a dove sedevano a tavola. È faticoso stargli dietro».

Tra le scene che colpiscono di più c’è quella in cui gli artisti entrano ballando al municipio e vengono accolti dal sindaco. «Testimonia la grande trasparenza e apertura di quel comune, la sua capacità di far entrare il teatro nelle istituzioni», conclude Barletti, «del resto si tratta di un comune, inizialmente costituito principalmente da coltivatori di mucche e maiali, che 49 anni fa ha fatto quasi una profezia e la storia gli ha dato ragione. Questo grazie alla grande apertura verso la cultura e all’attenzione all’alterità. Non hanno avuto paura del diverso».