In pochi avevano sentito il nome di Alain Guiraudie quando, nel numero di gennaio 2001 dei Cahiers du cinéma, Luc Moullet gli dedicò un lungo articolo, in linea con la tradizione dei testi con i quali quella rivista usa parlare di un certo tipo cineasti, quelli che di film in film sembrano tessere il filo di un’opera e che per questa ragione vengono chiamati autori. Il nostro ne aveva realizzati allora cinque: due corti, due medi e un lungometraggio, tutti ambientati a non più di 100 km dalla sua residenza nel Tarn. Magra filmografia, che non aveva impedito a Moullet di riconoscere in Guiraudie non tanto i pregi e i difetti di un regista promettente – in quei primi lavori, prodotti in maniera domestica o rocambolesca, non mancavano né gli uni né gli altri -, ma piuttosto i tratti di un gigante. Nei primi due, un cinema cittadino, fatto di conversazioni al ciglio di una strada di Rignac o davanti ad una chiesa a Blagnac (Les héros sont immortels, 1990), riportava in vita il Sud agricolo-metallurgico di Mes petites amoureuses (1974) di Jean Eustache – anch’egli aquitano.

Nei film seguenti, Guiraudie inviava i suoi eroi in giro per foreste brumose (La Force des choses, 1997) e altopiani deserti simili al sertao di Glauber Rocha (Du soleil pour les gueux, 2000). Per Moullet, questa svolta estetica – dal realismo al fantastico, dalla provincia abitata alla campagna selvatica – confermava la coerenza dell’autore. La noia dei piccoli centri non è forse il motore ideale di ogni voglia di evasione? D’altro canto, questi sogni, nel ripetersi del paesaggio sconfinato che li abita, non interpretano forse la routine della provincia? E poi, a fare da ponte tra sogno e realtà c’è sempre il desiderio, che in Guiraudie ha la facoltà di sentirsi a casa propria ovunque, di impossessarsi di un momento ordinario, per esempio due operai che smontano un marchingegno, e sostituire il mondo dell’utile con quello dell’erotico.

Ecco perché, quando vedrete Franck parcheggiare la macchina nella piazzola adiacente ad un lago, scendere in spiaggia, togliersi i vestiti e distendersi sulla rena, saprete di trovarvi nel più familiare degli scenari. Familiare per il cinema di Guiraudie. Ma non solo. Guiraudie convoca qui personaggi e situazioni tipici del cinema d’autore, ai quali la divisa di quel ramo del lago riservato ai gay, il corpo greco e le scarpe da ginnastica, fornisce una forma insolita. Li invita sul proprio terreno, che, come nei primi film, è sempre doppio. In spiaggia, dove i nudisti si espongono al sole, in coppia o da soli, prima e dopo l’amplesso, senz’altra occupazione che lo scambiarsi un saluto o un’occhiata, ritroviamo la fauna delle terrazze dei bar e le abitudini di quella, ovvero quel far niente che in gergo, mai così appropriato, si usa definire cazzeggio. La distesa d’acqua rappresenta ovviamente l’altro spazio del cinema di Guiraudie, il mondo delle radure dove gli eroi si immergono per evadere dal quotidiano. Come nella piscina di Palombella Rossa di Moretti, anche questo bacino è un luogo mentale dove galleggiano pensieri, desideri, sogni. Quelli di Franck sono belli, atletici, portano dei baffetti alla Freddie Mercury, e rispondono al nome di Michel.

Ma ancor prima di incontrare Michel, che è un sogno ma anche un incubo, il film ci ha fatto sapere che l’acqua è torbida. Henri, che in questa comunità di giovani adoni fa «banda a parte», lo suggerisce a Franck al loro primo dialogo: non hai paura del pesce siluro? È l’avvertimento di una Cassandra, ma sul momento lo si prende come un altro modo di mettere lui e noi a proprio agio, di evocare le leggende inquietanti che ogni lago si porta dietro e le chiacchere provinciali che le tramandano.

A rinforzare il sentimento di essere di casa, c’è il fatto che Guiraudie sembra mettere in scena la scena stessa, quasi facesse una lezione d’anatomia del cinema d’autore. Inutile entrare nei dettagli. Come per esempio l’inquadratura del parcheggio ricordi l’efficacia di certe trovate di Truffaut. O come gli amanti facciano pensare agli eroi silvestri di Astrée et Céladon, ultimo film di Rohmer, sorta di coming out libertino del cineasta altrimenti noto per la sua rigidità pascaliana. In verità, Lo sconosciuto del lago ignora il gioco delle citazioni ed entra direttamente nel tema dei temi del cinema francese: il rapporto, di amore e odio, con il teatro, rapporto che Guiraudie assume con la stessa caparbietà con cui Franck, pur sapendolo mortifero, rincorre l’amore di Michel.

L’accusa di fare un «teatro filmato» è tra le più infamanti che un cineasta possa ricevere. Guiraudie, che ne è stato vittima ai suoi inizi, scherza con il fuoco, entrando nel cuore del problema per rivoltarlo dall’interno. Delle due scene del film, il lago e la spiaggia, la più sfacciatamente teatrale è una terza: il bosco, dove gli amanti sembrano aggirarsi in tondo, come recitassero su un palcoscenico.
Nell’istante in cui il film si trasforma in un thriller, il boschetto perde la scena e si trasforma metaforicamente in una sala di un teatro all’italiana, dai cui ranghi, come se a nasconderlo non fossero i cespugli ma gli stipiti di un palchetto, Franck osserva l’azione. Che, contro ogni attesa, si rivela alla fine ciò che c’è di meno teatrale, perché appartiene alla più solida tradizione della suspence e del voyeurismo in cui ogni gesto sembra avere un doppio significato.

Il confronto con il teatro si intreccia con il tema più evidente del film, che è quello degli incontri omossessuali. È qui che entriamo nell’universo veramente sconosciuto del lago. Non che le scene di sesso tra uomini siano nuove al cinema. E se anche lo fossero per qualcuno, Guiraudie le riprende con tale naturalezza che sembrano esserci sempre state. Le posizioni sono illustrate con piglio pedagogico, che è anch’esso una caratteristica della cinefilia classica: al cinema si va anche per imparare come stare al mondo. Altrove, per esempio in Ce vieux rêve qui bouge, l’omosessualità era una bandiera dietro la quale schierarsi: come se l’ideale dell’uguaglianza, chiuse le fabbriche, potesse continuare su un altro terreno.

Qui l’utopia è già in atto: con i corpi di Franck e di Michel che, penetrandosi a vicenda, mostrano che nel sesso vale quello che il marxismo afferma del sociale: non esistono rapporti naturali (o innaturali), ma solo rapporti giusti (o ingiusti). In questo senso, il film è uno scandalo. Perché espone un rapporto tra eguali, rompe davanti ai nostri occhi l’imagine pornografica di dominio e di sottomissione che, onnipresente al cinema e alla televisione destinati al grande pubblico, si presenta come la forma immutabile di ogni relazione mentre è solo l’espressione ideologica di una società ineguale.
Ogni idea, in atto, perde d’innoncenza. Il regista parla attraverso l’ispettore quando questi rimprovera a Franck e ai frequentatori del lago il loro cinismo. Non giudica i costumi, ma ne osserva il degenerare da liberazione a consumismo. Non che Guiraudie guardi i propri personaggi dall’altro verso il basso. Il primo pisello rasato che vediamo ciondolare in spiaggia è il suo. E a nessuno dei bagnanti il regista nega la propria dolcezza. In particolare, il suo amore va al personaggio di Henri, il diverso.

Lo sconosciuto è lui. In primo luogo a se stesso, lui che sa e osserva tutto, con acutezza e perspicacia. Lui che, morendo come un maiale, ritrova l’umanità, è lo specchio in cui il film osserva il mondo invertito, l’incessante divenire uguale del diverso: il dare e il ricevere, l’amore e la morte, il teatro e il cinema. All’epoca dei film sintetici e degli attori digitali, Guiraudie scende in un lago qualunque per farci vedere che ancora non abbiamo visto nulla, che il cinema è ancora, per noi, questo sconosciuto.