È bastato un anno – uno dei più oscuri della sua storia – per tornare a un passato che molti pensavano superato per sempre. Conquistato il potere attraverso il golpe parlamentare-giudiziario-mediatico realizzato nel 2016 contro la presidente Dilma Rousseff, il governo di Michel Temer, malgrado il suo pessimo indice di gradimento, ha dato il via a una feroce restaurazione neoliberista, sferrando micidiali attacchi all’educazione e alla salute pubbliche, ai diritti dei lavoratori e dei pensionati, ai contadini e ai popoli indigeni, ai beni comuni e agli ecosistemi. Ma, se ha potuto farlo, è perché, in fondo, il popolo – al di là della mobilitazione di grandi movimenti come quello dei senza terra o quello dei lavoratori senza tetto – non si è riversato sulle strade per rovesciare il governo usurpatore.

Una resa che non è estranea all’involuzione del Pt: alla sua rinuncia, durante i suoi 13 anni di governo, a svolgere un lavoro di formazione della classe lavoratrice, optando per una strategia di inclusione sociale attraverso la via dell’aumento dei consumi delle fasce popolari, anziché attraverso quella della promozione dei diritti di cittadinanza. Una rinuncia a cui se ne è accompagnata un’altra, quella a operare una reale distribuzione di ricchezza, nell’illusione di poter sradicare la povertà senza toccare i privilegi del grande capitale rurale e urbano. E mentre il 2017 si chiude con il tentativo di realizzare l’ultima e decisiva fase del golpe – la probabile esclusione per via giudiziaria dalle presidenziali del 2018 di un Lula ancora molto amato dal popolo povero – la sinistra non vede altra strada che puntare ancora su di lui, cioè sull’artefice di quella politica di conciliazione tra le classi che ha tenuto finché l’oligarchia non ha trovato più conveniente dire basta.