«La vita è praxis, non poiesis», dice Aristotele in un passo famoso della Politica. Entrambe, praxis e poiesis, sono per lui modelli di azione che caratterizzano la forma di vita degli animali umani. La poiesis ha come proprio fine la produzione di un oggetto che, una volta arrivato a esistere, è qualcosa di altro e di estraneo rispetto all’attività che lo ha prodotto. Un letto, un computer, una casa, giunto il termine del processo che li ha realizzati, godono, in qualche modo, di una vita propria: non dipendono più dal falegname, dall’assemblatore, dall’architetto, dal muratore che li hanno portati a essere ciò che sono. Più radicalmente, l’oggetto esiste solo quando l’azione finalizzata alla sua produzione trova il proprio termine. Finché l’azione produce non c’è ancora l’oggetto e quando l’oggetto è realizzato l’azione viene meno.

La praxis, invece, è secondo Aristotele quella azione che trova il proprio fine in se stessa, che si compie svolgendosi. È quell’azione, cioè, che non trova il suo compimento in un oggetto. Il fare musica, per riprendere un esempio aristotelico che poi Heidegger utilizzerà come proprio nei suoi corsi universitari, non si realizza in un fine esterno: il suo compimento è già nello stesso fare musica. Una vita che si realizza in un prodotto altro da sé è una vita del tutto alienata, espropriata di se stessa: come il fare musica, appunto, la vita trova compimento nell’essere vissuta bene e non si acquieta una volta giunta al risultato, alla realizzazione di uno scopo esterno. Smettere di agire è, per la vita, smettere di essere se stessa: equivale alla morte.
È soprattutto grazie a Hannah Arendt e attraverso i suoi scritti che questa classica distinzione tra praxis e poiesis è stata riportata al centro della discussione filosofica nel secolo scorso. La sua riattualizzazione consente infatti alla filosofa tedesca di svelare e decostruire il pensiero politico dell’occidente e in particolare quello moderno. Essendo rivolta alla costruzione delle condizioni che consentono la legittimazione del governo, dunque alla elaborazione delle mitologie che reggono la legittimità dello Stato (lo Stato di natura hobbesiano, la volontà generale rousseauiana, tutte le forme di contrattualismo e neo contrattualismo) la teoria politica è un fare piuttosto che un agire, è una poiesis piuttosto che una praxis.

L’idea di fondo che attraversa tutta la scienza politica moderna è quella di un fare finalizzato alla costruzione di una casa dentro la quale si possa vivere protetti e sicuri. Ma si tratta di un costruire, appunto, non di un agire, che per sua essenza è sempre insicuro, sempre esposto al pericolo. Il modello greco, insomma, serve a Hannah Arendt – come scrive Alessandro dal Lago nella sua introduzione a Vita activa, uno dei grandi capolavori filosofici della seconda metà del Novecento – per portare alla luce e all’evidenza l’espropriazione moderna della politica, la riduzione della politica a tecnica, a calcolo finalizzato, ad amministrazione dei molti a opera dei pochi. Una espropriazione della politica, che è in qualche modo, e coerentemente con la distinzione di Aristotele, anche una espropriazione della vita.

Fare chiarezza su questi concetti è un buon presupposto per affrontare l’ultimo lavoro di Paolo Virno, L’idea di mondo Intelletto pubblico e uso della vita (Quodlibet, pp. 199, euro 16,50), che riprende nelle sue due prime parti un precedente lavoro pubblicato nel 1994 per manifestolibri e aggiunge un capitolo, L’uso della vita, che costituisce – scrive l’autore – «l’enunciazione stenografica, scandita da tesi perentorie, di un programma di ricerca ancora da realizzare». Ma è anche un pensiero del presente, uno sguardo acuto e mai nostalgico nei confronti del tempo che siamo.
Uno dei nuclei del ragionamento di Paolo Virno riguarda proprio l’agire. O, meglio, riguarda una difficoltà profonda relativa a un agire – l’agire politico – che è diventato sempre più enigmatico e inattingibile, fino a risolversi in un quella sorta di paralisi che è uno dei tratti più caratteristici dell’esperienza contemporanea. Enigmatico e inattingibile, perché le demarcazioni nette tra l’agire propriamente detto (la praxis), il lavoro (la poiesis) e l’esperienza del puro pensiero intesa come solitaria e perlopiù invisibile (l’episteme), non sono più in grado, secondo Virno, di rendere conto dell’esperienza concreta della vita contemporanea. I confini di queste diverse forme dell’agire sono diventati porosi e, piuttosto che lamentare la confusione o guardare con fastidio il presente rivolgendogli un nostalgico distacco, vale la pena ripensare l’azione proprio a partire da queste ibridazioni, prendendo sul serio, senza la pretesa di rimettere le cose a posto, l’infiltrazione reciproca della sfera dell’agire e di quella del lavoro.

Anzi, secondo Virno, il tratto caratteristico della contemporaneità sarebbe non tanto la riduzione della politica a produzione, come riteneva Hannah Arendt, quanto l’acquisizione dei caratteri propri dell’azione politica da parte del lavoro, il quale assorbe in sé quegli elementi di imprevedibilità, di creatività, di capacità di iniziare qualcosa di nuovo che nella classificazione aristotelica (e arendtiana) appartenevano solo alla praxis. All’interno di questo paesaggio mutato, il modello di azione proposto da Virno è quello dell’esodo, che non va inteso come rinuncia all’azione, quanto – verrebbe da dire – come azione di rinuncia e di rifiuto, come una defezione di massa dallo Stato, come azione in grado di fondare una Repubblica che si è congedata dall’ordinamento statale. Un’azione, dunque, che è innanzitutto negativa: non nel senso di una semplice quanto strumentale opposizione, ma piuttosto come disobbedienza, come capacità di mettere in questione la stessa facoltà di comandare dello Stato.

Questa teoria dell’azione, che pretende di avere i tratti di una «teoria politica di là da venire», si connette in modo interessante con il discorso che Virno, nell’ultimo e più recente capitolo del suo libro, dedica all’uso della vita. Il concetto di uso è ciò che sta alle spalle, secondo l’autore, tanto del lavoro e della produzione quanto dell’azione. Nell’uso, infatti, praxis e poiesis risultano intrecciate, ibridate e indistinguibili. Ne è esempio l’architrave di tutti gli usi, ovvero l’uso di sé, l’uso cioè che il vivente umano fa della vita. L’uso della vita presuppone infatti un vivente – l’uomo, appunto – che è in qualche modo distaccato da sé, che vive in modo essenziale l’esperienza del non sentirsi a casa propria, che non coincide, cioè, mai integralmente con la vita che egli stesso è. Solo su questa base è possibile qualcosa come l’uso della vita. E sempre solo su questa base, su questa non aderenza di sé a sé, assumono corpo le istituzioni, assume senso qualcosa come il noi.

In questo senso la vita è allo stesso tempo l’attività che usa e l’oggetto usato; ovvero ancora: ciò che è oggetto di cura nella cura di sé, ma anche la stessa cura. In questo senso, l’uso di sé non è uno spazio mistico che si apre quando si smette di agire, quando ci si è portati al di là tanto del lavoro, quanto dell’azione. L’uso di sé è semmai ciò a partire da cui assumono invece senso azione e lavoro, ciò a partire da cui è necessario ripartire sempre di nuovo per ripensare quell’ibridazione di lavoro e azione che costituisce il proprio dell’esperienza contemporanea. Vale a dire che la questione non è tanto quella di una felicità che si pone al di là di qualsiasi operosità (sia essa politica o produttiva) quanto la necessità di riarticolare sempre di nuovo le forme dell’azione, muovendo dalla capacità recitativa che è propria dell’uomo: la capacità di essere, insieme, sé e l’altro da sé, di pensare sé come un altro e un altro come sé.