Donald Trump, più di ogni suo predecessore, ha gli occhi costantemente puntati sui sondaggi di popolarità, peraltro gli stessi che ne pronosticavano, da candidato, la sconfitta alle presidenziali. Ed è, anche da presidente, un avido divoratore di televisione.

Quella tv che, 24 ore su 24, propone le immagini terribili dei bambini morti intossicati dal gas sarin nella cittadina settentrionale di Khan Sheikhou.

Aveva detto, Trump, che non si sarebbe invischiato nel conflitto siriano, se non contro l’Isis in azioni congiunte con altri paesi, e più volte aveva ripetuto che nella sua agenda non c’era posto per i diritti, tanto meno per i profughi in fuga da guerre, come i siriani verso i quali ha già voltato le spalle, figurarsi l’idea di altri in arrivo in seguito a un’escalation del conflitto siriano. In Medio Oriente poi, oltre a dare mano libera a Bibi Netanyhau, si è speso in lodi sperticate per l’uomo forte egiziano al Sisi, ricevuto con grandi onori alla Casa Bianca, un capo di governo che si farebbe una gran fatica a proporlo come esempio di tutore della democrazia al confronto con Assad.

Ma ecco in 24 ore un cambio repentino di atteggiamento.

È dunque il combinato disposto di immagini strazianti e di popolarità da recuperare, anche presso i suoi stessi elettori, che ha aperto cinicamente la finestra di opportunità per presentarsi come l’eroe vendicatore di vittime innocenti e insieme come il commander-in-chief che non esita a premere sul grilletto contro il cattivo del momento.

È una spiegazione possibile. Ma funzionerà questo film per recuperare terreno dopo la sequenza di fiaschi collezionati fin dal primo giorno di presidenza? E funzionerà, sul palcoscenico internazionale, per accreditare l’immagine di un’America che non esita a usare il suo apparato militare? Senza contare che le conseguenze negative di medio e lungo periodo saranno comunque maggiori del vantaggio immediato, il ciclo delle notizie è sempre più convulso, talmente rapido, che le armi di distrazione di massa diventano inevitabilmente effimere, dopo il primo impiego.

Così adesso siamo già a un altro film.

È evidente che, per quanto improvviso, l’attacco era pronto da tempo, dato il formidabile spiegamento di forze americane nella regione e lo stato d’allerta della flotta nelle acque antistanti alla Siria. È un dispositivo pronto a tornare in azione e moltiplicare la forza distruttiva esibita giovedì notte. Intanto gli altri attori sulla scena mediorientale non stanno a guardare.

Nell’epoca di Barack Obama, ai massimi vertici militari prevalevano le voci dei pragmatici, contrari, dopo l’esperienza irachena, a imprese militari che, prima o poi, avrebbero comportato lo spiegamento sul terreno di soldati. Puntavano più sullo sviluppo dell’intelligence e sull’impiego di reparti speciali.

Nell’amministrazione Trump, c’è una folta presenza di militari nei posti chiave, tra cui il Pentagono che prima si evitava di affidare a un generale e il consiglio per la sicurezza nazionale. È la rivincita dei falchi.

Non è stato sufficientemente indagato il rapporto reale tra un complesso militare industriale, tornato sotto il controllo dei duri, e un presidente che, da candidato, si era presentato come isolazionista e non interventista, al contrario della fama di guerrafondaia che aveva Hillary Clinton (e anche per questo non votata da molti elettori dem).

Certo è che nei piani di Trump il blitz missilistico è concepito come una prova dimostrativa limitata nel tempo, tesa solo a esibire l’inclinazione a usare la forza senza esitazione. Può essere un messaggio rivolto anche alla Corea del Nord, e quindi a Xi Jinping che incontra a Mar-a-Lago. Un monito anche all’Europa. Resta da capire come la mette con Putin. Forse con il leader russo ha fatto male i conti, se pensa che si faccia intimidire e costringere ad agire su Assad «sotto dettatura» americana, per giunta a suon di missili.

Si è sempre sostenuto che a Mosca hanno brindato quando è stato eletto Trump. Ne siamo sicuri? Un’altra scuola di conoscitori di cose russe, in America, sosteneva l’opposto. Ai russi – come ai cinesi – piacciono gli interlocutori attendibili. All’imprevedibilità del fanfarone che ostenta amicizia ma che nel giro di poche ore cambia idea, preferiscono una controparte ostile ma che segue l’agenda fissata. La saga del feeling con Putin, forse più mediatica che reale, arriva dunque al suo epilogo. E rottamate le vecchie alleanze e sudditanze, Trump adesso è davvero solo.