«L’uscita dall’euro non sia più un tabù»
Intervista Ripenssare la moneta unica. Parla Heiner Flassbeck, uno degli economisti tedeschi più autorevoli, già direttore generale del ministero delle finanze nel biennio 1998-99
Intervista Ripenssare la moneta unica. Parla Heiner Flassbeck, uno degli economisti tedeschi più autorevoli, già direttore generale del ministero delle finanze nel biennio 1998-99
Direttore generale del ministero delle finanze nel biennio 1998-99 quando a guidarlo era Oskar Lafontaine, poi alto funzionario dell’Unctad (Conferenza Onu sul commercio e lo sviluppo), il 63enne Heiner Flassbeck è uno degli economisti tedeschi più autorevoli. Autore di numerose pubblicazioni, oggi insegna all’Università di Amburgo e dirige un sito web di analisi e commenti sulla politica economica (www.flassbeck-economics.de) che offre una voce in controtendenza rispetto al mainstrem neoliberale.
Professor Flassbeck, in un suo recente studio – che ha suscitato un vasto dibattito – lei sostiene che il superamento della moneta unica così com’è ora non possa più essere considerato un tabù: la fine dell’euro potrebbe rappresentare un miglioramento delle condizioni del Sud Europa. Perché?
Secondo le mie analisi, il problema della zona euro è principalmente il gap di competitività tra Germania e paesi dell’Europa meridionale. Questa situazione è la conseguenza diretta delle politiche tedesche di dumping salariale praticate nei primi dieci anni di vita dell’euro, che, di fatto, sono andate contro le regole e lo spirito dell’unione monetaria. Il fatto è che il costo unitario del lavoro (cioè il salario in rapporto alla produttività) è aumentato in Germania in misura molto inferiore rispetto agli altri paesi europei, influenzando in maniera decisiva l’inflazione e conseguentemente la competitività delle esportazioni: minore inflazione e costo del lavoro significano prezzi più bassi della concorrenza estera. La catastrofe è l’attuazione di queste politiche di moderazione salariale in paesi come la Spagna e la Grecia: l’unico risultato ottenuto è la distruzione della domanda interna. Se tali misure venissero adottate anche in Italia e Francia si avrebbe il collasso dell’Europa. Per queste ragioni abbandonare l’euro potrebbe rappresentare forse l’unica possibilità per i Paesi oggi costretti a diminuire i salari di avere un’alternativa a tali misure. E per salvare l’Unione europea come progetto politico.
Come immagina potrebbe realmente concretizzarsi l’abbandono dell’euro?
Questi paesi potrebbero uscire dalla moneta unica, introdurre una nuova divisa, svalutare in maniera intelligente e quindi sopravvivere economicamente. Potrebbero esserci due euro, uno «forte» e uno «debole». Sono tutti scenari su cui è possibile ragionare. Ci tengo a sottolineare che io sono sempre stato un sostenitore dell’introduzione dell’euro: il problema è nato con la sua gestione. Se la politica non è in grado di governare il sistema della moneta unica, allora è meglio che venga abbandonato.
Lei sostiene che la moderazione salariale sia la ragione fondamentale della forza tedesca rispetto al resto d’Europa in questi anni. Come valuta l’idea di introdurre un salario minimo per legge contenuta in alcuni programmi elettorali (8,5 euro secondo Spd e Verdi, 10 per la Linke)? Quali sarebbero le ricadute europee di un aumento dei salari tedeschi?
L’unica soluzione alla crisi economica europea passa attraverso un forte aumento dei nostri salari che vada a compensare il gap di competitività. Le proposte sul salario minimo sono senza dubbio giuste e importanti, ma non bastano. Occorrono misure che riducano sostanzialmente la competitività tedesca nel medio periodo. Affinché i Paesi del sud Europa possano a loro volta migliorare la propria competitività, c’è bisogno di una fase di transizione in cui gli stati attualmente in crisi possano indebitarsi «in maniera sana»: ad esempio con i famosi eurobond. Anche la Germania trarrebbe alcuni benefici dall’aumento dei salari: crescita della domanda interna e aumento delle importazioni. Il problema del nostro sviluppo economico è stato negli ultimi anni proprio relativo alla domanda interna: si è avuta stagnazione dei consumi interni e degli investimenti. Insomma, dietro l’immagine di una Germania vincente grazie al boom di esportazioni esiste una realtà ben diversa.
Come valuta le proposte economiche dei tre partiti di sinistra (Spd, Grünen e Linke) che si presentano al voto?
Possiamo definirli tutti e tre «di sinistra»? Per quanto riguarda la Spd non credo sia possibile. Ufficialmente continua a sostenere che le politiche di riforme strutturali del governo di Gerhard Schröder – la cosiddetta Agenda 2010 – siano state giuste, e non ha messo al centro della propria campagna elettorale un vero dibattito sulla crisi in Europa. Steinbrück e compagni non sono in grado di proporre soluzioni per la situazione attuale: proprio a causa della mancanza di ricette alternative a quelle di Angela Merkel che socialdemocratici e Verdi non ne hanno parlato. A mio modo di vedere, l’unica forza politica che ha provato davvero a comprendere realmente la crisi e a cercare soluzioni è la Linke.
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