La Germania si annoia, ma diversamente dalla Francia alla vigilia del maggio ’68, è ben contenta di farlo. Raramente una campagna elettorale è stata altrettanto soporifera e il livello di scontro tra i maggiori partiti così sfuggente e sforzato al tempo stesso da risultare come l’obbligo di una tediosa messa in scena. Il «miracolo Schulz» è durato appena un paio di settimane, poi tutto è rientrato nella lunga durata del «miracolo Schroeder», quello che ha fatto pagare alla Spd con gli undici milioni di voti persi dalla fine degli anni ’90 a oggi la riforma liberista e disciplinante del sistema tedesco. È la continuità dell’esistente a godere della maggiore attrattiva e del più solido credito. Tanto che la cancelliera non ha impostato la sua ennesima candidatura su mirabolanti promesse per il futuro, ma su un rassicurante «voi mi conoscete». La Germania competitiva e ordinata, egemonicamente europeista, è una certezza, una confortevole abitudine.

Il solo frisson offerto da questa tornata elettorale è la prevista affermazione di Alternative fuer Deutschland, il rissoso partito identitario e nazionalista di destra guidato da Frauke Petry, con il suo probabile ingresso nel Bundestag, forse addirittura come terza forza politica del paese. Ma si tratterebbe comunque di un fenomeno più antropologico che politico e per nulla in grado di scalfire la stabilità della Germania di Angela Merkel.

Qualcosa che riguarda più gli umori impauriti e aggressivi di una parte minoritaria della popolazione tedesca che non gli effettivi equilibri politici del paese. Certo, se al posto della Linke o dei verdi, l’Afd si affermasse come principale forza di opposizione, questo rappresenterebbe un segnale inquietante del clima sociale che attraversa il paese e un sicuro incoraggiamento dei comportamenti xenofobi.

Pochi giorni fa il settimanale Der Spiegel aveva pubblicato brevi ritratti degli esponenti di Afd più quotati per entrare in parlamento: notabili di provincia, terze file del conservatorismo tedesco, professori e magistrati frustrati, pronti a cogliere l’occasione di una visibilità politica che li sottragga all’anonimato. Nulla di trascinante.

L’unico vero effetto politico di questa destra retorica e rumorosa è quello di confermare la funzione insostituibile del «conservatorismo illuminato» che Angela Merkel ha imposto alla Cdu e, sia pure controvoglia, fra proteste e ricatti, al riottoso alleato bavarese della Csu. Del resto i neofascismi europei e le forze nazionaliste con questi imparentate sono serviti soprattutto a sospingere le sinistre sul fronte, tutt’altro che proiettato verso il futuro, dell’antifascismo. Nel secondo decennio del ventunesimo secolo aver «fermato il fascismo» sembrerebbe un ben modesto motivo di vanto.

La mina delle migrazioni di massa è stata per il momento disinnescata, stipendiando gli aguzzini, statali o tribali, che imperversano nelle terre già appartenute all’impero ottomano. Che questo indecente castello di sabbia sia destinato a resistere molto poco di fronte a un poderoso processo storico di lunga durata non ha alcun peso nell’attuale contingenza. La xenofobia di Afd dovrà dunque accontentarsi dei fatti di cronaca nera, assai comuni in tutta Europa, enfatizzando a più non posso quelli in qualche modo ricollegabili all’immigrazione. Non ne deriverà certo una spinta popolare sufficiente a minacciare l’establishment tedesco tanto da condizionarne scelte e comportamenti.

Esclusa dunque Afd da qualsiasi gioco politico, resta la poco appassionante riffa sulle possibili coalizioni necessarie alla formazione del prossimo governo.

Definite su base cromatica per la labile distinzione dei contenuti politici, si dispongono tutte in una linea di sostanziale continuità saldamente al guinzaglio di Angela Merkel. Nondimeno, nell’eclissi dei temi di fondo, le questioni di dettaglio, gli accenti, le sfumature non mancheranno di rendere lunghe ed estenuanti le trattative per la formazione del governo.

In questo panorama piatto e desolato la grande coalizione con la Spd resta l’opzione più «di sinistra» tra quelle effettivamente disponibili. A meno che la socialdemocrazia non si rassegni a tentare di arginare il suo progressivo disfacimento con una seria esperienza di opposizione politica e sociale. Ma invertire una tendenza di subalternità così lunga e radicata non è facile. Manca ormai la cultura politica, la mentalità, lo strumentario teorico e pratico, la voglia di discontinuità per cambiare strada. I miracoli, come ci ha mostrato la breve parabola di Sankt Martin, non esistono. I socialdemocratici, del resto, hanno contribuito alacremente a fare della Germania un modello di diseguaglianza crescente, di salari imbrigliati, lavoro sottopagato e umiliante controllo sociale. Un modello di straordinaria tenuta che, nonostante tutto, è riuscito a raccogliere un vasto consenso intorno alle brillanti prestazioni economiche del sistema. Non è dunque questa sera che qualche segno di svolta potrà mostrarsi. A meno di sorprese.

Ma la Germania, dopo il 1945, non ama affatto sorprendere né essere sorpresa.