Nel 2013 centinaia di milioni di mobili, oggetti, giocattoli, casalinghi, elettrodomestici, libri e apparati elettronici sono passati di mano in mano con fatturati complessivi a nove zeri e prezzi talmente bassi da competere con le importazioni asiatiche low cost (ma spesso offrendo una qualità maggiore). Si tratta prevalentemente di filiere corte dove ricchezza prodotta e valore aggregato rimangono sul territorio.

In epoca di difficoltà economica non c’è dubbio che il riuso sia un vero toccasana, e non è un caso che l’Unione Europea includa questa pratica tra gli strumenti strategici per il rilancio dell’economia comunitaria. Lo stato dell’arte di questo complesso e variegato settore è descritto nel Rapporto Nazionale sul Riutilizzo 2013, redatto dal Centro di Ricerca Economica e Sociale Occhio del Riciclone e intitolato «L’Usato che Ragiona». Il titolo del rapporto ha una motivazione precisa: nell’anno che ci siamo lasciati alle spalle, in Italia l’attività di studio, sperimentazione e dimostrazione sul riutilizzo è aumentata esponenzialmente, soprattutto a causa della pressione delle direttive europee che impongono lo sviluppo di piani e proposte. È una cosa positiva: l’innalzamento del livello del dibattito lascia infatti meno spazio alle iniziative che a volte i Comuni, senza preoccuparsi di fornire risultati, mettono in campo con l’unico intento di poter dichiarare di «aver fatto riutilizzo»… e disinnesca il tentativo di alcune amministrazioni regionali e comunali di promuovere, per motivi politici e di immagine, la riproduzione dei loro «modelli» di centro di riuso anche quando questi non riescono a produrre risultati di rilievo.

Uno dei dati chiave emersi dal rapporto è il risultato di riutilizzo medio di un negozio conto terzi dell’usato a conduzione familiare; lo storico delle vendite di 4 anni di un campione di 210 negozi mostra una media di riutilizzo annuale pari a poco più di 100 tonnellate a testa: una quantità simile alla somma di tutti i centri di riuso aperti con denaro pubblico in Centroitalia. Il dato ha un risvolto importante: se uno qualsiasi dei 4000 negozi in conto terzi gestiti in Italia da coppie giovani e meno giovani con l’aiuto dei figli, dei fratelli e dei cognati, riesce a produrre circuiti sociali territoriali in grado di generare molto più riutilizzo che un centro di riuso finanziato e promosso con grande pompa da un ente locale, perchè non chiedere agli enti locali di concentrarsi, piuttosto, nel favorire il consolidamento e la proliferazione di questa piccola economia (che, per paradosso, si trova proporzionalmente a dover sostenere più oneri di chi commercia il nuovo)?

Occhio del Riciclone ha proposto che tutte le iniziative pubbliche di riutilizzo che non possono mostrare performance di riutilizzo maggiori alla media di un negozio privato vengano sospese e che il denaro risparmiato venga usato per favorire le attività economiche familiari realmente in grado di produrre risultati (non solo ambientali ma anche in termini di ricchezza, posti di lavoro e sviluppo locale). (…)

 

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