The Stone Roses: Made of Stone nasce da una soffiata che il frontman Ian Brown fa all’amico Shane Meadows nella primavera del 2011 «Stiamo tornando, hai voglia di filmarci e mantenere per un po’ il segreto?». Questo annuncio improvviso di una pace agognata da almeno due decenni è il fulcro del documentario del regista inglese, presentato nella sezione After Hours del Torino Film Festival, sulla reunion degli Stone Roses, quintessenza britannica della cosiddetta rock band seminale.

Nella Manchester di inizio anni 80 il cantante Ian Brown e il chitarrista John Squire si conoscono in una sorta di giro modaiolo cittadino fatto di revival modernisti e scooter truccati e non tardano di molto le prime schitarrate nei garage di famiglia. Il batterista Alan Wren e il bassista Gary Mounfield si uniscono successivamente e il piano d’attacco é molto semplice: diventare la più grande rock band del mondo amalgamando influenze musicali disparate in un grumo esplosivo fatto di pulsazioni della scena house di Chicago, di virus punk mai del tutto debellati e di un sano revival britannico del rock psichedelico. Dopo anni di apprendistato nei locali e nelle cantine della città, finalmente nel 1989 con l’uscita dell’album omonimo l’Inghilterra trova i suoi nuovi Beatles ma l’improvviso successo e delle sanguinose dispute legali con la casa discografica ben presto disintegrano l’alchimia dei nostri. Il secondo album esce soltanto cinque anni dopo ma l’aria che si respira non è più la stessa e il fenomeno del Brit Pop ha già confezionato i suoi nuovi idoli, trascinando gli Stone Roses nel 1996 verso l’inevitabile scioglimento fino a quella telefonata che sfocia in una conferenza stampa dove la band annuncia un tour euro-asiatico e tre date all’Heaton Park nel cuore della loro Manchester. Risultato: biglietti esauriti nel giro di pochissime ore e vecchi adoratori disposti a tutto pur di rivivere quella memorabile stagione musicale e quel rigurgito mai sopito da Inghilterra manovale e operosa, afflitta dai troppi castighi della lady di ferro.

Focalizzandosi sul fragilissimo equilibrio che sembra ancora legare i quattro membri del gruppo, Meadows non restituisce il quadro completo dell’abituale parabola di ascesa e caduta tipico di tante band ma, abbandonando molto presto il repertorio e le nostalgie pustolose d’archivio, si concentra sulla ricerca e sull’attualità di un suono divenuto immortale ma allo stesso tempo perfettamente cristallizzato nella guerra lisergico-pop al grigiore tatcheriano. Non poteva che essere Meadows l’osservatore privilegiato di questa, per certi versi, miracolosa resurrezione: fan dichiarato della band, questo bonario Ken Loach di seconda generazione conosce alla perfezione gli umori rabbiosi e le sfumature dell’epoca, ampiamente ricostruite nell’ottimo This is England e nelle successive tre serie tv che seguono i protagonisti fino al 1990, e mette al centro del suo lavoro la prospettiva, assai poco frequentata nel genere del documentario musicale, del fan sfegatato – indimenticabile il disperato preside disposto a offrire un contratto a tempo indeterminato a una sua dipendente pur di strapparle il biglietto del concerto – conservando lo sguardo affettuoso verso quella massa ancora adorante nonostante il lavoro in banca in giacca e cravatta e i figli da mantenere e celebrando quel sound che il sentimento del tempo ha saputo traghettare dalla provinciale Manchester fino all’estremo Oriente.