«Le Canarie hanno parlato forte e chiaro» titolava un giornale locale il giorno dopo le grandi manifestazioni contro il petrolio.
Un titolo sicuramente indovinato: centomila persone, in larga maggioranza giovanissimi, si sono riversate sabato scorso nelle strade e nelle piazze delle capitali delle sette isole Canarie, per gridare no alle trivellazioni petrolifere, decise dal governo spagnolo e sì alle energie rinnovabili, reclamate a gran voce dal popolo.

Nessuno aveva dubbi che la manifestazione sarebbe riuscita e finita per essere la più grande nella storia di queste isole. Lo si era capito dalla risposta spontanea di rabbia e indignazione, dopo che si è sparsa la notizia del parere favorevole del ministero dell’Ambiente alle trivellazioni nell’arcipelago. Ovunque sono spuntate bandiere con la mano nera al centro (il logo del movimento) e i manifesti di convocazione della manifestazione in tutte le isole per sabato 7 giugno.

Forse il tempismo e le scelte del governo sono state dettate dalla crisi ucraina che ha svelato la fragilità del modello energetico dell’Europa, ancora caratterizzato dalla dipendenza da combustibili fossili, dalle importazioni di petrolio e uranio, da quel 53% di energia consumata che viene da fuori, soprattutto dalla Russia.

Come sempre ad agire sono forti interessi economici e di potere, ma forse c’è anche un gusto ostinatamente perverso nel voler mettere a rischio uno dei principali serbatoi al mondo di biodiversità, un luogo considerato come il più grande giacimento di risorse solari ed eoliche del pianeta, l’arcipelago delle Canarie.

La minaccia è reale. Proprio alla fine di maggio, concluse le elezioni europee, il governo di Spagna ha autorizzato la multinazionale degli idrocarburi Repsol, tristemente nota per l’enorme debito in termini di sfruttamento, sopraffazione e inquinamento, contratto con numerosi popoli, a perforare l’oceano, di fronte a Fuerteventura e Lanzarote. Un atto senza giustificazione, come è stato dichiarato dalle associazioni ambientaliste europee, che mette in pericolo le Canarie, il loro ambiente e la loro economia basata sul turismo e la pesca.

Una decisione che crea anche un brutto precedente per altre indagini petrolifere da autorizzare nel Golfo di Valencia, nelle Baleari, in Catalogna e nel mare di Alborán, nella parte più occidentale del mediterraneo.

In tutte le isole i cortei sono stati aperti dallo stesso striscione: «una sola voce no alle trivelle». Un no che che dalle Canarie si è esteso alle isole Baleari, all’Andalusia, Madrid, Barcellona, Londra, New York, Roma.

Con gli hashtag #savecanarias #nopetroleo #unasolavoz dalla Canarie è partita la mobilitazione sociale che ha contagiato il resto della Spagna e le comunità spagnole sparse in tutto il mondo. C’è una consapevolezza diffusa che non basta dire no al petrolio alle Canarie. Per riuscire a fermarlo bisogna sconfiggere il tentativo in atto a livello europeo e mondiale di rilanciare l’egemonia dei combustibili fossili sulle scelte energetiche.

Molto concretamente si tratta di sviluppare un movimento di lotta in tutti i luoghi dove si materializza il tentativo di rilancio dei combustibili fossili, a cominciare dall’Italia. La posta in gioco è dunque elevatissima, perché decide le scelte energetiche dell’Europa per i prossimi decenni e di conseguenza il ruolo che il vecchio continente giocherà nella lotta ai cambiamenti climatici.
Vincerla significherebbe aprire concretamente le porte ad un nuovo modello energetico europeo, rinnovabile , poco bisognoso di energia e democratico. Un passaggio decisivo che oltre a predicare una nuova Europa le darebbe finalmente un corpo, alternativo a quello liberista, non a caso alla testa del tentativo di rilancio delle trivellazioni petrolifere.

Una sinistra che aspiri veramente a sconfiggere l’egemonia liberista sull’Europa non può sottrarsi da questa sfida, pena la sua totale ininfluenza.