Nel maggio del 1991 Cesare Luporini e Pietro Ingrao confrontano le diverse posizioni nei riguardi del Partito democratico della sinistra appena costituitosi al quale Ingrao aderisce e non, invece, Luporini. Le motivazioni che giustificano il differente atteggiamento sono contenute in due lettere, ora pubblicate in «Critica marxista», che ho segnalato in questa rubrica la settimana scorsa.

Quelle pagine inedite sono corredate, a contestualizzarne valutazioni, argomenti, circostanze e presupposti, da tre saggi di commento dovuti a Sergio Filippo Magni, Giorgio Mele e Giovambattista Vaccaro. Luporini giudica l’adesione al Pds priva di una «sufficientemente autonoma piattaforma politica, cioè una strategia da affermare subito e che sia subito mobilitante». Ingrao, di rimando, a Luporini dice di aver tentato di dare una motivazione dei processi tale da delineare nel concreto «le scelte che si presentano», ricorrendo ad un concetto – processo, appunto – assai importante per intendere il suo pensiero.

Una scelta concreta, subito operativa è politicamente efficace quando è motivata dall’interno di un processo. Nel maggio del 1993, due anni dopo, Ingrao, deluso, lascia a sua volta quella nuova formazione, in implicita sintonia con il giudizio che di quella formazione aveva anticipato Luporini. Ma quella di Ingrao è una decisione maturata, verificata diremmo, a conclusione di un processo. Lo scambio tra Luporini e Ingrao nella primavera del 1991 mette in luce un carattere del comportamento politico di Ingrao improntato a convincimenti e riflessioni condotti ad un elevato grado di elaborazione.

Riflessioni sui processi che consentano l’avvento di una umanità libera, dell’uomo umano che sopprime l’uomo alienato della relazione economico-sociale capitalistica, da perseguire lungo una strada altra rispetto al paradigma rivoluzionario del 1917 bolscevico quando si declinò l’operaio (la leva che rompe il rapporto capitalistico di produzione) entro una dimensione eminentemente militare. Una semplificazione, una riduzione.

Al contrario: dall’operaio alla soggettività, contesto di relazioni multiformi, onnilaterali (il riferimento è al Marx del ’44, letto anche attraverso Luporini) da realizzare, dice Ingrao, come «un allargamento dell’esistere», che è l’istanza originaria e costitutiva del nesso libertà-comunismo. Ma come si dà conto politico delle realtà molteplici che insistono nella soggettività, con quali forme di organizzazione collettiva tali da superare e inverare la forma partito? Forma nuova, adatta alla complessità e, corrispettivamente, immaginazione di istituzioni nuove della democrazia. Queste le domande, constatati i falliti tentativi del secolo.

Se si pone mente al vocabolario di Ingrao quale si viene configurando dalla fine degli anni Settanta (molteplicità; pluralità; correlazioni; intrecci; scomposizioni; connessioni; polimorfismo; poliedricità; maturazioni; processualità), è possibile cogliere il compito teorico che egli si assegna, il suo cimento. Non si dà adeguata e proficua cognizione d’una realtà estraendola dal suo contesto, senza una ricognizione delle realtà che essa implica, coinvolge e collega. Comprese le realtà che evoca o solo suggerisce per via d’allusione e d’analogia. E comprese le realtà che ricusa o declina in opposizione o a contrasto. «Una visione polimorfa delle cose e della soggettività».

La ‘soggettività’, privata del suo ‘polimorfismo’ e ridotta alla invarianza e fissità di un canone, è sottoposta a una violenza che, poi, puntualmente si riproduce sotto spoglia di certezze, di fedi, di ortodossie. Le realtà, vuoi soggettive, vuoi di relazione, plurali, poliedriche e multiformi, producono complessità e come complessità agiscono. «Dar conto della complessità»: tale, dice Ingrao, è il compito d’una politica che sia intesa a «esprimere un allargamento dell’esistere» e si faccia dunque capace di articolare una praxis che ne determini le condizioni, ovvero l’espansione delle libertà. Dove, a ben vedere, la locuzione allargamento dell’esistere par qui giunta a sussumere il termine comunismo.