Dimissioni? No grazie. Cortese, Maurizio Lupi respinge l’altrettanto garbato invito del presidente del consiglio. Un invito? Ma che esagerazione! Lupi smentisce secco le voci che parlano di un premier impegnato nel pressing: «Renzi non mi ha mai invitato a lasciare».
In effetti la frase «te ne devi andare» Matteo Renzi non la ha pronunciata nemmeno in privato (in pubblico, invece, l’ex sindaco della città baciata dall’ultimo scandalo è rimasto muto come un pesce). Nessuna spintarella. Tutt’al più amichevoli consigli: «Non ti chiedo né ti chiederò di dimetterti, ma valuta la situazione». In concreto: pensa alla stampa, all’aula che rumoreggia chiedendo la tua testa. Il sottinteso non c’è nemmeno bisogno di esplicitarlo: «Pensa all’immagine del governo».

L’interessato ringrazia per i consigli ma fa sapere già in mattinata di non aver alcuna intenzione di seguirli. Prima di uscire allo scoperto, però, fa in modo che a fargli scudo sia il suo leader e ministro degli Interni, Angelino Alfano. Poche parole, molto pesanti: «Abbiamo piena fiducia in Lupi. E’ pronto a spiegare in Parlamento e non pensa alle dimissioni». La dichiarazione che condiziona la giornata è proprio questa. Se Alfano la mette così, vuol dire che arrivare allo showdown con il ministro delle Infrastrutture vorrebbe dire arrivare allo scontro frontale con tutto l’Ncd, partito i cui voti sono vitali per il governo. Alla Camera Fabrizio Cicchitto fa risuonare, felpata quanto si vuole ma precisa, la minaccia. Chiacchierando qua e là pronuncia la formula maledetta per eccellenza, «appoggio esterno».

Con il partito alle spalle, un Lupi già determinato a resistere sente di avere le carte vincenti in mano. E va giù piatto. Lui per primo non vede l’ora, brucia dalla voglia di affrontare l’informativa in Parlamento, cioè al Senato. Per ripetere che non ha fatto nulla di discutibile, che non deve scuse a nessuno, che non ha spesso neppure una paroletta peregrina per far assumere il figliolo, che le linee guida del suo ministero sono state sempre adamantine: «rapidità, efficienza, trasparenza, correttezza». Non si può dire che le abbia realizzate neppure alla lontanissima: la corruzione è da dimostrarsi, l’asinità invece indiscutibile e conclamata. Questo, comunque, afferma il ministro prima a Milano, all’inaugurazione di Made Expo, poi alla Camera, in quel succoso antipasto dell’informativa vera e propria offerto dalle rispose nel corso del question time. Questo, più o meno alla lettera, ripeterà al Senato.

Dunque Matteo Renzi si trova in un vicolo cieco. Non può costringere Lupi alle dimissioni, e anche se ne avesse il potere difficilmente lo farebbe con un Ncd deciso a far quadrato. Potrebbe esporsi, rompere l’imbarazzante silenzio che dura ormai da giorni, dire apertamente che le dimissioni sarebbero, se non doverose, almeno opportune. A botta calda, ha pensato di farlo. Ma le controindicazioni sono impressionanti. Se l’Ncd reagisse passando all’appoggio esterno la sorte del governo sarebbe segnata a breve, e Renzi le elezioni anticipate in questo momento proprio non le vuole. Se invece Lupi si limitasse a fingere di non aver sentito rimanendo al suo posto, la credibilità del premier crollerebbe. Conclusione: o Lupi si convince da solo, oppure, salvo colpi di genio, non c’è niente da fare.

Sul piano parlamentare, in realtà, il governo non ha nulla da temere. Martedì si discuterà la mozione di sfiducia comune presentata da M5S e Sel. Se la minoranza del Pd la votasse sarebbe un disastro. Lupi (e Renzi) si salverebbero grazie a Forza Italia e contro una parte sostanziosa del Pd. Fortunatamente la minoranza del Pd è quella che è, e dunque non lo farà. Giustificazione ufficiosa, tanto per sfidare senza paura il ridicolo: non si può votare una mozione presentata anche dall’M5S. Impagabili. Oltre ai partiti proponenti voteranno contro Lupi la Lega e qualche deputato Pd. Pochi. I soliti Civati e Fassina. Ma fuori dal Parlamento, dove conta l’opinione pubblica, le cose starebbero all’opposto esatto. Ecco perché Renzi è deciso a tentare sino all’ultimo di convincere Lupi al bel gesto. Sempre che dalle carte non esca fuori qualcosa di tanto solido da imporre al ministro l’addio.