C’era qualche preoccupazione nel pensare di aprire il ragionamento sul Piano casa del governo Renzi ricordando la figura di Giorgio La Pira. Temevo infatti che la lingua incontinente del premier avrebbe sepolto il grande sindaco della Firenze degli anni del dopoguerra sotto la sequela di insulti che dedica ormai al meglio della cultura italiana, da Rodotà a Zagrebelsky e Settis. Un altro professorone da disprezzare, o meglio un estremista. La Pira lasciò infatti di stucco l’opinione pubblica dell’epoca perché requisì molti appartamenti non utilizzati per assegnarli alle famiglie povere e per i senza tetto. Un adempimento audace, ma iscritto nella Costituzione (art. 3) che conosceva alla perfezione avendo fatto parte dell’assemblea costituente.

Anche oggi ci sono decine di migliaia di famiglie e di giovani che non hanno la possibilità di avere una casa, ma la musica è cambiata. Nell’articolo 5 del decreto legge n. 47 (finalmente pubblicato pochi giorni fa) «Piano casa per l’emergenza abitativa» si afferma che nelle occupazioni abitative che punteggiano molte grandi aree urbane del paese e che riguardano, come è noto, edifici abbandonati da tempo, è vietato allacciare i pubblici servizi, acqua e luce elettrica. La Pira era un cattolico come il premier e come il ministro per le infrastrutture Maurizio Lupi e quell’articolo dimostra l’abisso culturale che li divide. Quest’ultimo ha definito delinquenti gli occupanti.

Ma non è questa l’unica vergogna presente nel testo di legge preparato con tutta evidenza dall’ufficio studi dell’associazione dei costruttori e dalla proprietà edilizia e prontamente veicolato dal premier. Nei venti anni di cancellazione di ogni regola, si è costruito molto nel nostro paese: i dati ufficiali ci dicono che gli alloggi recenti invenduti sono un milione e mezzo: da soli potrebbero ospitare quattro o cinque milioni di abitanti. Ancora i dati ufficiali ci dicono poi che ci sono oltre 200 mila famiglie in grave disagio abitativo. Ma figuriamoci se chi si è arricchito oltre misura in questi due decenni rinunci ad una modesta parte delle previsioni di guadagno. Così, all’articolo 10 si permette di assimilare quegli alloggi, dovunque siano ubicati e qualunque qualità abbiano, in alloggi «sociali», che vuol dire ottenere tutte le agevolazioni di legge ed economiche per destinarli a famiglie in grado di pagarsi un mutuo immobiliare.

Se la vendita di automobili supera la domanda di mercato e i piazzali delle aziende si riempiono, si riduce la produzione e per salvaguardare i lavoratori si ricorre a contratti di solidarietà o agli ammortizzatori sociali. Il comparto abitativo continua a sfuggire alle logiche del mercato tanto osannate a parole. Se il mercato tira, gli operatori immobiliari possono guadagnare ciò che vogliono perché lo Stato ha rinunciato da tempo a qualsiasi azione calmieratrice. Nel decreto legge, ad esempio (articolo 3) si prevede ancora di vendere le poche case rimaste di proprietà pubbliche. Se il mercato entra invece in una crisi epocale che necessiterebbe di ben altre analisi e soluzioni, si ricorre agli aiuti pubblici.

Una volta piazzate le case invendute, non si rinuncia neppure a costruire ancora nuovi quartieri. Sempre l’articolo 10 dice infatti che lo stesso trucco che trasforma l’edilizia privata in alloggi assistiti dal denaro pubblico si applica anche alle grandi lottizzazioni che non erano neppure iniziate proprio per la crisi di mercato. Si perpetua dunque il modello dissipativo che ha portato all’attuale crisi di sovraproduzione.

La Pira viveva in un piccolo alloggio all’interno di un convento anche se non gli mancavano certo amici in grado di fornirgli una casa a prezzi vantaggiosi. Renzi quando era sindaco della stessa città ha scelto di farsi pagare l’alloggio da un facoltoso amico. Un altro segnale eloquente della distanza morale e culturale che ci separa da quel fecondo periodo. La conseguenza di questa distanza culturale stava ieri sotto gli occhi di Roma: decine di migliaia di persone e di giovani senza casa chiedevano provvedimenti veri in grado di risolvere davvero l’emergenza abitativa. Provvedimenti neppure sfiorati da un decreto legge scritto in continuità con le teorie economiche responsabili dell’attuale crisi.