Amato da lettori e interpreti diversi per stile e carattere quali Sergio Ferrero, Dante Isella e Gianfranco Ravasi, con I testimoni (puntoacapo Editrice, pp. 108, e 15,00) Basilio Luoni, classe 1941, offre una nuova prova del suo dialetto di Lèzzeno, cimentandosi in quindici poemetti in versi liberi messi in bocca ad altrettanti personaggi della passione di Cristo: i quali, quasi testimoni di un nuovo vangelo, rinarrano la storia sacra secondo una loro versione apocrifa, non molto dissimile dalle testimonianze vulgate, ma caratterizzata da un punto di vista individuale, che le reinventa e riattualizza con l’aiuto di una lingua arcaica, trapiantandole dal lago di Tiberiade a quello di Como. Nasce così quell’effetto di straniamento che viene proprio da un dialetto lombardo marginale di forte conservatività fonetica e lessicale, anche se di scarsa tradizione letteraria, ragion per cui il robusto espressionismo innato in tale loquela ha agio di trasferirsi in modo del tutto naturale e irriflesso nella invenzione poetica di Luoni senza ombre di ricalchi e debiti letterarî troppo esibiti, pur in una trafila lombarda che ha cospicui e nobili ascendenti.
La novità di questa passione in quindici stazioni è il carattere monologante di ciascun interlocutore, qui inteso come ‘testimone’ di una vicenda umanissima e trascendente, in cui prevale la svisatura del singolo e la verità si frantuma in tante personali appercezioni. In questo relativismo delle singole testimonianze, quello che prevale è sempre il punto di vista dell’io e la natura monologante, teatrale dei vari interlocutori. Siamo così di fronte a una sacra rappresentazione in cui le ragioni dei singoli sovrastano la realtà dei fatti ed esibiscono una gamma di prospezioni interpretative dell’evento. Tutto ciò avviene in un quadro che ha il valore di una sequenza teatrale, in cui vittime e carnefici, in un ipotizzato tribunale soprastante, sono sempre testimoni a favore di se stessi, in una storia dagli esiti inevitabili.
Così in sequenza sono chiamati a parlare i personaggi della scena tragica, facendosi latori ognuno di un proprio sentimento autobiografico. Così lo stesso Nazareno, il primo locutore, nonché vittima designata, declina giustamente come rivolta a sé la parabola allegorica dei cattivi vignaioli (Matteo, 21), uccisori del figlio del padrone; il brigante Barabba stesso si racconta una parabola alla maniera di Gesù: parabola forse di redenzione, dopo l’inattesa, immeritata libertà: «S’hal de fa? / Dervì i al, pontà el soo? / El se ingossa de voeudio el falchett, / ghe vee fina de piong. / Hei scherz de fa? / Quond l’è fornì tuscoos se recomenza? / Imparà on’altra volta/ a golà con la piuma / che l’ha cambiaa coloo?» («Che cosa deve fare? / Aprire le ali, puntare dritto al sole? / Si ingozza di vuoto il falchetto, / gli viene persino da piangere. / Sono scherzi da fare? / Quando tutto è finito si ricomincia? / Imparare un’altra volta / a volare con le piume / che hanno cambiato colore?»); il Flagellante («el Giudee de la sgiovella») è analfabeta, ma sa leggere nei segni sanguigni impressi dalla sua sferza nel corpo del Cristo, l’eterna vicenda di Giuseppe perseguitato dai fratelli: «È sempre la storia / del fratello che vogliamo far fuori, / quello che ci fa ombra. / Va messo nudo, nascosto nel pozzo, / venduto ai mercanti, col rimorso / di aver guastato un po’ troppo la mercanzia» (da qui in avanti si cita, per sinteticità, non dal testo dialettale, ma dalla bella traduzione dello stesso Luoni).
C’è spesso una nota dissonante e inattesa in taluni di questi personaggi, un qualcosa che li qualifica e li rende ora più umani, ora più sordidi, non secondo la loro immagine vulgata, ma secondo un soggettivo, imprevedibile sentire dell’autore, per cui Pilato sembra mostrare un sussulto di resipiscenza e di relativa vergogna di fronte al suo atto di lavarsi le mani: «E si sa che la Giustizia / ha sempre gli occhi bendati. / Oggi bisognerebbe lavare la faccia / anche a lei, è grondante di sputi / anche lei, come me, come tutti, / di spurghi che non si riesce a sfregare via»; il Cireneo, nel suo aiuto al Cristo, pare più cinico che soccorrevole: «Faccio giusto in tempo a caricarmi la croce, / a portargliela su, in cima al dosso. / Se no, cosa mettevano in croce? / Ci inchiodavano un morto? / Uno che si mette in croce ha da essere vivo. / Gli ho salvato la festa»; non empietà ma una certa sofferta compassione si riscontra invece nelle parole del Soldato che ha vinto ai dadi la veste del Signore: «Ci sono gli schizzinosi dei miei compagni / che guai tenersi addosso la veste / di un morto: porta male. Io non ci credo. / Non la porteresti la camicia / di un fratello o di un padre? Di qualcuno / che ti vuol bene? Che ti ha voluto bene? / Ci vuole male quest’uomo? A me non pare»).
A un certo punto parla anche il teschio di Adamo (quello che nelle raffigurazioni pittoriche sta ai piedi della croce, eterno memento mori); ed è l’occasione per l’invettiva e l’autoaccusa, per riconoscere «il mal seme d’Adamo»: «Brutta razza, Signor, razza carpiga» («Razza cattiva, Signore, razza ostinata»). Sia il teschio che successivamente la Madonna («la Mamm») invocano un lavacro rigeneratore dell’umanità: «È venuta giù un’acquerugiola / tiepida, rossa. / Il Padre piange! hanno gridato. / Che metta al macero tutti, / sbianchi queste frattaglie, / faccia mettere radici / a una semente sana»; «Lava via tutta la febbre, / lascia pulite le ossa, / chiama l’erba nei prati / che aspettano lo scroscio».
Anche altri personaggi si affacciano sulla scena del Calvario, e ognuno con il suo bagaglio di astuzie, di passioni, di dubbî: la zingara (che secondo la leggenda ruba un chiodo della croce); Longino il centurione (guarito dell’occhio malato da uno schizzo di sangue del Cristo); la Maddalena (impedita di toccare il Signore apparsole in figura d’ortolano); Tommaso (incredulo credente, innamorato delle sue incertezze). A Giuseppe d’Arimatea tocca di staccare il Cristo dalla croce, ormai del tutto deprivato di peso corporeo come «on soltamartii / sensa carna sui oss» («come una cavalletta / senza carne sulle ossa»), ma con un tenero sorriso in volto come di bimbo rapito da un sogno infantile: «La faccia / si è distesa, quasi sorrideva / come quella degli infanti che stanno sognando / un bel sogno e chissà cosa vedono: / la madre, il padre, la balia / che gli fa il solletico, / l’orto, le farfalle, la notte, le lucciole / dentro e fuori dei cespi / di rosmarino…».
Felice continuazione del Librô di figur (Sedizioni 2015), e soprattutto di due ‘misteri sacri’ del Natale e della Pasqua, questi Testimoni, introdotti da una simpatetica prefazione di Francesco Rognoni e accompagnati da una altrettanto compartecipe serie di acqueforti di Giuseppe Bocelli (ritratti umani e figure d’animali), sembrano essere ora il frutto più maturo di una poesia in dialetto che affonda le sue radici in un rustico linguaggio prealpino, aspro e preservato, ma intriso di una cultura classica e moderna ammantata di miti e leggende, tanto da attingere ora, nel segno di una laica religiosità, al mito a noi più connaturato, quello della vita e morte del Cristo.