Per profumare l’odore acre della manovra di palazzo, per dissimulare la brutalità di uno scontro fratricida, per coprire la gravità di una crisi extraparlamentare decisa da un solo partito che smentisce le primarie e si fa beffe del drammatico distacco tra eletti e elettori, nel conclave del Pd la parte del leone l’hanno fatta gli incolpevoli poeti. Il segretario-sindaco-futuro premier ne ha tirati in ballo due o tre, per fargli dire che ambizione smisurata e coraggio sono due virtù, proprio quelle che lo spingono a cogliere “l’attimo fuggente” per disarcionare Enrico Letta dalla poltrona di palazzo Chigi.

L’atto finale è durato un paio d’ore e pochi minuti dopo la votazione di un ordine del giorno della direzione che gli dava il benservito, il presidente del consiglio ha annunciato la formalizzazione delle proprie dimissioni, oggi, nelle mani del Capo dello Stato.

Una maggioranza che un tempo si sarebbe definita bulgara ha applaudito la scelta di una crisi a prescindere (anche Totò era un poeta ma non ha avuto l’onore della citazione). A prescindere perché non una parola è stata spesa per i contenuti di questo governo renziano (e tantomeno del programma offerto da Letta alla discussione). A prescindere perché niente è stato detto sullo schieramento alternativo che dovrebbe sorreggere e giustificare questo cambio della guardia con incorporata garanzia di blindatura fino al 2018. Tanto che la sinistra dei Cuperlo e dei Fassina ha messo agli atti che se la discontinuità rivendicata da Renzi per la sua ascesa al comando è quella ascoltata da alcuni interventi in direzione, «siamo più a destra» del governo che oggi se ne va. Ma solo Civati (in sedici hanno votato contro) non si è unito al coro. Denunciando il rischio che tutto il Pd, e quel che più conta il paese, affondi definitivamente nella palude. Dove solo un animale può sopravvivere: il caimano.

In realtà l’unica vera discontinuità del governo renziano sta nella sottolineatura della natura non più tecnica, emergenziale, ma politica e di legislatura dell’operazione in corso. In altre parole non più un “governo del presidente”, con Napolitano ispiratore della sua missione e di alcuni ministri-chiave, come è avvenuto per i governi Monti e Letta. Proprio l’ipotesi più invisa ai diversamente berlusconiani che ieri, con Alfano, hanno scartato questa ipotesi («accetteremo solo un governo d’emergenza»), e chiesto, come anche Berlusconi, di parlamentarizzare la crisi, mettendo sul tavolo la carta delle elezioni anticipate.

Per il condannato resuscitato da Renzi al ruolo di padre costituente delle riforme si apre una fase politica promettente. Poter sparare non su un traballante governicchio di piccole intese ma sul bersaglio grosso. Oltretutto avendo dalla parte del manico quella maggioranza per le riforme di cui è sempre stato un esperto affossatore.

Dieci mesi dopo la disastrosa scelta delle larghe, poi piccole, intese la fase che si apre è figlia naturale di quel peccato originale, ne porta addosso tutti i segni, a cominciare dal modo, dalle forme in cui si è prodotta la crisi. In confronto, la repubblica delle banane è un faro di democrazia.