Chissà se Boris Eltsin aveva immaginato, il giorno in cui decise di affidare a Putin la guida del governo e poi quella della Russia, che l’ufficiale serio e distaccato seduto all’altro angolo del tavolo, uno passato per le caserme dei servizi segreti e le stanze spoglie dei burocrati di Leningrado, sarebbe rimasto al potere per 20 anni, diventando per di più il simbolo di un’epoca.
Allora Putin doveva ancora compierne 50. Era rimasto alla larga dai lussi della politica sino a quel punto, neppure per un giorno il suo nome era finito sulle locandine dei quotidiani. Ma quando i russi lo hanno visto accanto a Eltsin, nessuno avrà pensato di avere di fronte qualcosa di nuovo. Secondo lo storico Roy Medvedev, Putin avrebbe potuto essere per Eltsin e per gli oligarchi che avevano smontato gli ultimi pistoni dell’Unione sovietica, quel che Gerald Ford era stato per Richard Nixon. Un grosso custode del passaggio, uno capace di garantire al vecchio capo del Cremlino le giuste sicurezze alla fine del lavoro, allo stesso modo in cui Gerald Ford aveva concesso negli anni Settanta l’amnistia a Richard Nixon. Finita la missione che gli avevano assegnato, Putin sarebbe potuto scomparire, senza lasciare molte tracce nella storia del paese. In realtà è stato quello e molto altro.

Dubbi su Putin li hanno avuti i cronisti in quei mesi di passaggio dal palazzo del governo alla cima al Cremlino. «Le sue rare apparizioni televisive colpiscono per la loro laconicità – diceva un ritratto pubblicato all’inizio del 2000 sulle pagine di Izvestia – I suoi modi caustici e la sua inflessibilità sono piuttosto gradevoli a loro modo, sebbene siano sovrastate da un’intelligenza rigorosa e da uno sguardo impenetrabile. Si attiene rigorosamente alle regole, in questo modo riesce a nascondere i propri pensieri, le espressioni del viso, e a celare i propri sentimenti».

Lo scrittore Edvard Limonov lo ha chiamato una volta «uomo cartellina». Riteneva che sarebbe potuto passare per un intellettuale, per un professore non universitario, magari di un istituto tecnico, ecco appunto, per l’insegnante di una materia come la chimica che i colleghi avrebbero chiamato sicuramente «l’uomo nell’astuccio», oppure «cartasuga». Quell’uomo a sé stante, un estraneo in tutto e per tutto di fronte alla stragrande maggioranza degli elettori russi, non si sarebbe potuto sognare neppure un seggio alla Duma, figurarsi il Cremlino, senza l’atto di dispotismo compiuto da Eltsin. Eppure vent’anni più tardi, con tre mandati da presidente alle spalle e uno da primo ministro nel mezzo, Vladimir Putin è l’unico davvero in corsa alle elezioni del 2018, e per vincere alle urne non sembra avere bisogno di candidarsi ufficialmente.

A dire il vero non sembra avere bisogno neppure degli elettori. In fondo è sempre stato così: il suo atteggiamento nei confronti del popolo russo, l’incolmabile distanza che separa da sempre il presidente dall’uomo della strada, sono fra gli aspetti più chiari e meno discussi della sua storia ufficiale, in patria come all’estero.
Nel mese di agosto del 2000, nei terribili giorni del Kursk, Putin apparve quasi indifferente di fronte alla tragica fine di 188 marinai costretti a morire dentro un sottomarino per proteggere le ragioni di uno stato sull’orlo del collasso. Alla sua vita privata i comuni cittadini guardano attraverso le fessure della tv pubblica. Quando è chiuso nelle stanze del palazzo, oppure è impegnato negli affari della nazione, i russi mostrano estremo rispetto per il loro presidente. Ma quando Putin cerca di mischiarsi al popolo che governa, cominciano i problemi. Fischi sonori lo hanno accompagnato nel 2012, durante l’intervento in uno stadio, poco prima di un incontro di boxe. Le sue visite improvvise nelle case di ignari cittadini hanno tutte una cosa in comune: l’identità degli ospiti, che sono sempre gli stessi, probabilmente figuranti ingaggiati per la recita annuale. Sembra che rimanere sotto la pioggia battente per onorare i caduti in una guerra lontana sia per Putin un sacrificio tutto sommato accettabile. Molto meglio che confondersi con il resto della Russia.

Chi ha riempito l’enorme spazio che separa la politica dal popolo? Nessuno dubita che Vladimir Zhirinovsky, con il suo Partito liberal democratico, abbia raccolto sin dalla fine degli anni 90 gli umori più scuri del paese con una piattaforma rigorosa e nazionalista e proposte spesso provocatorie, a volte folli (una volta ha chiesto alla Duma di impiegare l’esercito contro gli uccelli migratori per bloccare l’epidemia di aviaria). Negli ultimi anni il partito Ldpr s’è adeguato nelle meccaniche dello stato verticale: formalmente in Parlamento occupa i banchi dell’opposizione, ma si tratta di un’opposizione molto vicina al Cremlino su temi importanti come il ruolo del paese sulla scena internazionale. È solo più decisa, così decisa da fare apparire Putin un leader moderato. Così, negli ultimi tempi, un altro figlio della Russia ha sollevato lo sguardo dalle strade di Mosca per guidare un movimento che in Europa sarebbe definito populista.

Si tratta di Alexei Navalny, avvocato e star del web, impegnato in una lunga lotta contro sprechi e corruzione. La sua avventura politica è cominciata fra i liberali del partito «Yabloko», che lo hanno allontanato nel 2007 per le posizioni xenofobe dopo gli sfoghi violenti contro le minoranze del Caucaso e dell’Asia centrale. Navalny ha sostenuto con forza l’intervento militare in Georgia e poi il processo che ha ricondotto la Crimea dentro i confini della Russia. Questo non gli ha impedito di assumere toni duri nei confronti di quello che ha chiamato partya zhulikov y vorov, ovvero il partito di «ladri e truffatori» che sarebbe Russia Unita. Il 2 di marzo, nel primo giorno su YouTube, la sua inchiesta sulle fortune private del primo ministro, Dmitri Medvedev, ha raccolto oltre un milione e mezzo di visualizzazioni, che sono diventate tredici milioni nel giro di due settimane. Da allora le sue campagne sono diventate più aggressive.

Nel Giorno della Russia, il 12 giugno, Navalny ha spinto i sostenitori contro un corteo ufficiale sulla strada Tverskaya, nel centro di Mosca. La polizia ha fermato almeno 800 persone in tutto il paese (fra loro oltre cento minorenni), mentre Navalny ha ricevuto una condanna a trenta giorni di carcere. Gran parte della stampa europea considera Navalny l’ultima speranza della Russia liberale, un cortocircuito evidente rispetto alla lotta che gli stessi quotidiani portano avanti, in Italia e non solo, contro i movimenti populisti. Navalny – è vero – ha subito attenzioni molto particolari da parte dei magistrati e persino attacchi fisici di sospetta matrice che la Russia non dovrebbe sopportare, e l’Europa non può lasciare senza risposta. Ma l’interesse di alcuni opinionisti va ben oltre questo aspetto. «L’ultima volta che lo abbiamo incontrato ci ha fatto vedere la valigia che tiene sempre pronta per il carcere», ha ricordato di recente Ezio Mauro con un video sul sito di Repubblica. «L’Europa migliore è con lei caro Navalny e con la grande Russia dei valori», ha scritto Gianni Riotta sul suo profilo Twitter. Il problema è che Navalny ha sempre mostrato poco interesse per l’Europa, specie per quella «migliore» che Riotta sente di rappresentare. Il sospetto è che il sostegno passeggero a Navalny non sia altro che un modo per aumentare la pressione su Putin e sulla Russia. Con ogni probabilità non assisteremo mai a uno scontro elettorale fra l’uomo-stato Putin e l’uomo-popolo Navalny. In settimana la Corte suprema ha bloccato le ambizioni di quest’ultimo con un veto alla candidatura nelle presidenziali del 2018. Per i russi non fa grossa differenza. Navalny avrà anche grande seguito sulla stampa straniera, ma secondo uno studio condotto nei mesi passati dal Levada Center, se il paese andasse alle urne domani il blogger guadagnerebbe soltanto l’1% dei voti. Forse il populismo non ha nulla da offre a questa Russia.