Nell’ennesima giornata nera di Claudio Scajola, Silvio Berlusconi si sarà di certo complimentato con se stesso, e dargli torto è difficile. Era stato lui personalmente, appena poche settimane fa, a bloccare con un veto definitivo la candidatura dell’ex ministro, fresco di assoluzione per la faccenduola della casa al Colosseo ricevuta in dono a sua insaputa. Lui, il ligure ex democristiano, figlio del fondatore dello scudocrociato a Imperia e figlioccio di Paolo Emilio Taviani, non aveva fatto buon viso a cattivo gioco. Aveva insistito, aveva urlato e strepitato. Niente da fare. Sul suo nome l’ex alto protettore si era rivelato irremovibile.

Questione di fiuto, stando a quello che lui stesso dichiarava agli intimi nei giorni della rissa. Niente di personale contro il caro Claudio, ma è un fatto che quello pare abbonato ai guai. Dal 1983 a oggi, Scajola si è in effetti ritrovato alle prese con grane di ogni tipo. Ne è quasi sempre uscito bene, con assoluzioni o archiviazioni, ma la lista delle disavventure giudiziarie resta comunque impressionante: dal sospetto di tangenti sugli appalti per il casino di Sanremo a una serie di indagini concentrate sulla sua Imperia, una volta gli appalti per il porto, un’altra la sua villa, e poi ancora abuso edilizio, persino una preziosa anfora romana sulla cui proprietà i togati avanzavano dubbi in quantità. Senza contare le gaffes politiche, come quella battutaccia rubata da un cronista su Marco Biagi, ammazzato di fresco dalle nuove Br, che nel 2002 gli costò il ministero degli Interni. Al Viminale c’era rimasto poco, tredici mesi appena. Nel corso dei quali si era però verificata la storia peggiore nella quale sia mai incappato un ministero degli Interni nella storia repubblicana: il G8 di Genova.

Colpevole o non colpevole, Scajola è di certo un tipo molto goffo e poco fortunato: difetti, entrambi, che per Berlusconi pesano più di ogni altro addebito. Forse, dunque, è davvero questa l’unica spiegazione del suo niet alla candidatura nelle liste azzurre del 25 maggio. O forse no. Forse l’ex cavaliere aveva subodorato qualcosa in più, aveva avvertito i segnali della nuova tempesta in arrivo. Per saperlo bisognerebbe ascoltare le registrazioni delle telefonate al vetriolo tra lo sgomitante ex ministro e l’astro sorgente Toti. In quei litigi furibondi, debitamente registrati, c’è la spiegazione del mistero dell’improvvisa ostilità del capo nei confronti di quello che a un certo punto, a cavallo tra i primi anni ’90 e i 2000, era stato il suo uomo di fiducia. Perché Scajola, a differenza di quasi tutti i forzisti, aveva alle spalle un’esperienza politica vera nei partiti della prima Repubblica, ed era l’unico a saper fare quel che Berlusconi chiedeva allora: costruire un partito con una vera e propria struttura, non più la messa in scena plastificata degli esordi. Scajola quel compito lo aveva assolto bene. Altri tempi.

Ma per quanto contentone per aver evitato con lucida preveggenza la grana,, non è che al leader alla ricerca di una difficilissima rimonta sfuggano i perduranti rischi. Non a caso Berlusconi ha sprecato per il suo ex braccio destro pochissime parole. Si è limitato a un tanto gelido quanto laconico «Sono addolorato». Ma Scajola non è il solo forzista finito nelle maglie dell’inchiesta. Ce ne sono altri e tutti di un certo peso, come Luigi Grillo e Gianstefano Frigerio. Se lo scandalo si dovesse allargare proprio alla vigilia dell’apertura delle urne, il danno potrebbe rivelarsi irreparabile. E anche il colpo di fortuna della coincidenza tra l’arresto del ras azzurro e quello di Primo Greganti, il signor G., simbolo del Pci-Pds sfuggito alla sorte degli altri grandi partiti negli anni di tangentopoli, sarebbe una ben magra consolazione. Perché i voti dei delusi da tutto e da tutti finirebbero nei forzieri di Grillo e per Forza Italia non ci sarebbe più nessuna speranza di salvezza.