Che cosa capita alle nostre radici quando ci stacchiamo dalla terra dove siamo nati e cresciuti? Cosa capita a quell’io a cui tanto prestiamo attenzione e che ci fa dire quel che diciamo e agire nei modi in cui agiamo? Siamo veramente quel che ci è stato insegnato? Per vivere dignitosamente le nostre esistenze è davvero importante mantenere saldi i piedi laddove sarebbero ricamate quel che chiamiamo le radici? Oppure è retorica, è soltanto un modo per attribuirci un valore che superi la precarietà della nostra consistenza ed esistenza?

STANDO AI RECENTI FILM e romanzi dedicati al tema le nostre radici sono affondate nella terra dove hanno faticato e sognato i nostri avi, i nostri nonni, i nostri genitori. Senza questo contatto diretto e questa continuità saremmo perduti. Eppure, al contempo, quanti travasi conosciamo, quanta esperienza abbiamo anche in prima persona provato che ci ha dimostrato che le radici sono dove siamo noi, dove tessiamo la nostra tavolozza degli affetti e degli impegni? Le radici sono permanenti o mobili?

USAMA AL SHAHMANI NASCE a Bagdad nel 1971. Nel suo paese cresce, studia e inizia a scrivere saggi e pièces teatrali. Proprio a causa del proprio impegno intellettuale deve lasciare l’Iraq e viene in Europa, trovando una nuova patria in Svizzera. Nel 2018 pubblica il romanzo In terra straniera gli alberi parlano arabo che in questi giorni fiorisce tra gli scaffali delle librerie grazie a Marcos y Marcos. Che cosa ci racconta questo libro? Anzitutto ci racconta del passato del suo autore, e ci racconta di come tenta di trovare pace e nutrimento nella patria di accoglienza. Il legame o meglio l’elemento che riesce a trasformare ogni malinconia rispetto al passato, che sa suturare come i margini di una ferita il distacco violento e spaventoso e la sua vita vissuta e la sua patria e la sua lingua sono gli alberi.

ORA CHIUNQUE PROVA un autentico sentimento di trasporto verso i boschi e la natura e gli alberi sa che questi sono anzitutto trasformatori universali, proiettano quel che noi abbiamo bisogno di costruire oltre i nostri limiti, le nostre angosce, le nostre paure; incontrare questi giganti silenziosi e farli diventare nostri amici, nostri parenti, amarli, ammirarli, meditarci insieme è qualcosa che avviene nelle comunità umane da migliaia di anni e in ogni parte del mondo. Se è vero che «la patria vive nel mio animo», scrive Al Shahmani, è altrettanto vero che possiamo fuggire dalle nostre terre ma loro persistono in noi. Gli alberi, con questa loro curiosa dimensione di transito fra i mondi, fra la pace delle montagne e delle forme di esistenze apparentemente inanimate e senza pensiero, e una forma di consapevolezza ben ragionata e ponderata, sono diventati i punti fermi del nuovo tempo dell’autore.

IN IRAQ NON SI CAMMINA per attraversare il paesaggio, in Svizzera si cammina abitualmente. Andare a piedi è normale, e quando si ha del tempo libero spesso si attraversano boschi e sentieri. Lentamente Al Shahmani impara, imita, si fa forza e si rimodella, allunga nuove radici – spirituali? esistenziali? – e inizia a fare comunione arborea, a inforestarsi. Brilla una prima scintilla che gli consente di iniziare a travalicare, di conciliarsi col trauma della perdita, ce lo dice lui: «Sul sentiero, nei pressi di un piccolo casolare, c’era un albero con il tronco spezzato. Mi dissi: vedi, il tronco è stato spezzato eppure sta qui fiero, e il colore verde ne esalta la bellezza. Dove trovava la capacità di rimanere in piedi e tornare a mettere rami? Mi chiesi. Nelle radici o nella terra in cui cresceva? E cos’erano mai le radici? Anche noi uomini le abbiamo? Potevo affermare con certezza di essere un iracheno? E cosa cambierebbe se non lo fossi? Il bell’albero mi dava gioia, e mi era indifferente che le sue radici si trovassero in Europa e in Asia».

ALBERO IN IRACHENO si dice «shagher». Nella cultura irachena gli alberi sono personaggi favolistici legati a spiriti maligni, il bosco soltanto un luogo dove perdersi. Ovviamente gli alberi del suo paese sono ben diversi dalle essenze che compongono i vasti boschi svizzeri. Il diario romanzato è scandito col nome di sette alberi inventati – l’albero dell’amore, l’albero della speranza, l’albero dell’incertezza, l’albero della morte, l’albero della patria, l’albero del sogno e l’albero della pazienza – attraverso queste maschere i ricordi, materia fondamentale di queste pagine, le amicizie, le persone perdute, le lettere che riceve dall’Iraq si rimescolano agli accadimenti, agli incontri, ai dialoghi con i suoi nuovi compatrioti. Ci sono esuli o espatriati che una volta arrivati in una nuova nazione decidono di dimenticare, di interromperei contatti perché oramai il passato è solo passato. Questa non è la via coltivata da Al Shahmani, che invece irrobustisce la sua nuova biologia, intrecciando le due identità, l’irachena – e quindi le tragedie, la guerra, la dittatura – e quella dell’uomo che si trasforma nel cuore dell’Europa. Gli alberi nei boschi parlano davvero arabo? Per Al Shahmani sì e la sua opera lo testimonia.