Nell’ambito dell’iniziativa voluta dallo scultore Ernesto Lamagna insieme al gesuita Daniele Libradori -la mostra itinerante «7 artisti per 7 chiese» che terrà banco fino al prossimo novembre- ci siamo interessati del «Cristo» di Ennio Calabria in mostra a Roma nella Chiesa di Sant’Andrea della Valle. D’acchito -come non poteva non essere- il pensiero è andato al capolavoro di Monicelli «Risate di gioia» allorché Lello (Ben Gazzara) ruba una preziosa collana al simulacro della Madonna e, per allontanare da sé ogni possibile sospetto, incastra Gioia (Anna Magnani) che si era perdutamente innamorata di lui.
La prima annotazione (il quadro, un acrilico con tecnica mista di 3mt x 2 su tela campeggia nella terza cappella di destra) è sui tratti somatici del Cristo raffigurato. Lontano dagli stereotipi e dall’iconografia corrente che lo vuole biondo, con i capelli lunghi e gli occhi azzurri, egli viene qui raffigurato con la pelle olivastra e bruna, i capelli sono scuri e corti, il che rimanda verosimilmente ad un normotipo dell’area palestinese essendo definito il Cristo da alcune scritture ‘semita’: l’intuizione non è peregrina, è analoga a quella del Cristo caravaggesco nella «Vocazione di San Matteo».
Il rimando obbligato è al Cristo sospeso di Dalì laddove però la Croce sovrastava la Terra reale nel significato di un Salvatore misericordioso che portava sulle spalle tutto il dolore del mondo, e ai macchiaioli per come viene tratteggiata la croce. Qui il legno è di colore grigio ma per un motivo patente: è in atto la tempesta con la pioggia battente che offusca il paesaggio e risparmia solo la figura dell’uomo perché sia monito ed esempio del sacrificio degli ultimi.
Calabria ha chiarissima la dinamica della crocifissione: il braccio destro -contrariamente, anche qui, all’iconografia- vede il chiodo trafiggere il polso perché fu chiaro (ed è stato comprovato recentemente con esperimenti su cadaveri) che il chiodo conficcato nel palmo della mano in brevissimo tempo scardinava la trama di nervi e di tendini dell’arto facendo precipitare il corpo. La mano sinistra è libera e nonostante il dolore lancinante fa l’unica cosa che ci si aspetti: fa leva sul patibulum insieme alla spinta che gli è ancora concessa facendo perno con il bacino sul pegma :serve al condannato per respirare ma la fine è imminente. È evidente il collasso polmonare con il rigonfiamento del ventre che non riesce più a pompare aria e la compressione del costato; un costato che riporta la ferita della lancia con un sangue violaceo già rappreso; più verosimilmente è in atto nell’individuo un collasso cardio-circolatorio.
Il Cristo di Calabria non riporta, appeso al collo, il titulum, il cartello che riportava la descrizione della condanna, a riprova della Universalità del messaggio. La crocifissione era comminata ai non romani e ai sovversivi e i condannati erano esposti nudi per una maggiore umiliazione; l’autore dimostra di conoscere la storia che raffigura e allora fa svolazzare lo straccio per mettere in mostra il sesso del crocifisso.
C’è qui un elemento di novità che rende il dipinto, al di là della raffigurazione, di una modernità inusitata (certo non per chi conosce bene l’autore): il Cristo non rivolge lo sguardo al cielo, non chiede al Padre di essere salvato ma si riferisce in basso, verosimilmente proprio a quegli uomini che lo stanno torturando. Cerca in loro, più prosaicamente, un salvataggio ancorché improbabile. È come se dicesse loro: «Siete ancora in tempo, datemi una mano, siete in errore: ho sentito cose senza senso come «omo che se fa rege secondo nostra lege contradice al Senato» ma io non ho voluto sostituirmi a nessuno, volevo solo dire la mia, mettete fine a questo scempio, a questo dolore infinito che lacera le mie carni». Ma la tempesta nasconde anche i pochi uomini rimasti, i centurioni e, intorno alla croce, si è fatto il Deserto a significare la solitudine dell’uomo non solo nel momento del trapasso ma, anche, nel momento di disancoramento da un’umanità vilipesa. La tempesta isola il crocifisso nella sua Fissità e Atemporalità.
Paradigmatico della solitudine dell’uomo sotto ogni latitudine, il Cristo di Calabria è lo studente del G8 torturato dai poliziotti che gridavano «Viva Pinochet», è il raccoglitore di pomodori bruciato dal sole vessato dal caporale al quale molestano, anche, la moglie, è quel disgraziato che pesava 35 kg e faceva uso di droghe picchiato a morte. Raramente avevamo visto un’opera ‘sacra’ di tale modernità, di così forte impatto e desolatamente ‘laica’ e ci viene in soccorso l’artista: «Il desiderio di riscatto di milioni di individui ha creato un gruppo genetico di nome Cristo». Opera laica dunque che parla di un Dio terreno, distante dalle Scritture e vicino alla disperazione dei suoi simili in una improbabile catarsi nella sovrapposizione di un dolore che non ha nulla di ascetico.