Ci sono assenze dalla vita forti, fortissime, che diventano quasi presenze. E ci sono presenze totalmente inessenziali, che durano giusto la macina di qualche minuto, fatta salva, naturalmente, la fittizia eternità della Rete. Venti anni fa, il 4 dicembre del 1993, lasciava questo pianeta con molto dolore e un residuo di sorriso beffardo sotto baffi e «mosca» precocemente imbiancati il signor Frank Vincent Zappa. Professione: genio della musica, tout court.

Primo paradosso, e quando si parla di Zappa, il paradosso è norma: perché lui era il primo a dichiarare di «non essere nel business dei capolavori», e di essersi limitato, in vita sua a «mettere in agitazione un po’ di molecole nell’aria per un certo periodo di tempo stabilito per ogni agitazione», che sarebbero poi i brani musicali. Adesso forse è andato ad abitare sull’asteroide ZappaFrank, regolarmente registrato, o nuota nei mari assieme a nugoli splendidamente infestanti di meduse Phialella Zappai, nome tributo dal biologo marino genovese Fernando Boero, peraltro ricambiato dal Maestro Baffuto con un complementare tributo in musica al 23Lonesome Cowboy Nando.

Di sicuro invece sarebbe il primo a ridere, lui, di statue e intitolazioni di strade, e a scriverci sopra qualche colta irriverenza eclettica. Un’assenza-presenza forte, s’è detto, ed è pura verità. Perché l’uomo che si nutriva di caffé, sigarette, partiture, e ricerca maniacale sulle musiche possibili ogni notte della sua vita, travestendo il tutto teatralmente da «rock», e riuscendoci pure, a farlo sembrare solo rock sbilenco e «impossibile», è più vivo che mai. Non si parla, qui, dell’ossessiva reiterazione dei frammenti residui possibili, dilatati all’infinito, raschiando ogni possibile fondo di barile: per questo ci sono già schiere di avvoltoi (magari accanto a scrupolosi archivisti, sia chiaro) che così hanno operato con Hendrix, con Jim Morrison, con John Lennon, e via citando il pantheon dei santini-santoni rock.

Il fatto è che tale e tanta è stata la produzione di Frank Zappa, una mole bachiana, in pratica, e tale il piglio auto-documentario sulle proprie attività, che diversi decenni non basteranno ad esaurire scoperte ed indagini sui materiali nascosti nel leggendario Vault, il magazzino-cantina-laboratorio zappiano dove riposano migliaia di bobine magnetiche e cassette. Le uscite post mortem, per ora, si assestano sulla quarantina circa di titoli, fra recuperi «live» ed inediti assoluti. Ultima nata, la magnifica serie dei Road Tapes: per ora testimonianze dal ’68 e dal ’73. Domani, chissà. Ma, scegliendo fior da fiore, il consiglio è di ascoltarsi almeno queste chicche: Feeding The Monkies At Ma Maison, «impossibili» composizioni per synclavier, Joe’s Domage, dove ascoltate il Maestro nel suo laboratorio, mentre prova con i suoi musicisti, Wazoo, versioni dal vivo orchestrali del jazzatissimo Grand Wazoo, Philly ’76, con la documentazione di un organico che ebbe vita brevissima.

Senza contare le possibili riletture e gli studi sul musicista. In Italia ad esempio, non considerando l’encomiabile sforzo di chi ha dato vita per anni a una rivista interamente dedicata a Zappa, emanazione dell’Associazione Debra Kadabra, in questi quattro lustri dalla sua scomparsa sono usciti diversi libri interessanti: a partire, nel 2000, da Frank Zappa domani / Sussidiario per le scuole (meno) elementari, saggi e testimonianze varie raccolte e curate da Gianfranco Salvatore. E un paio d’anni fa Frank Zappa For President! Testi commentati, di Michele Pizzi: introduzione a colui che, a livello testuale, Pizzi considera, in buona sostanza, un perfetto cronista americano del Novecento. Avete letto bene, cronista, e di razza. Per il gusto zappiano del commento salace e in tempo reale di quanto succedeva attorno alla bolla speciale della sua musica. Magari adattando e attualizzando testi scritti trent’anni prima. Il contrario dell’esteta chiuso nella torre d’avorio. Perché poi Zappa amava molto, è noto, anche gli aspetti grevi e ridicoli delle cose: per riportarla in musica, poteva scrivere note come l’amato Edgar Varèse, ma poi adorava il suono enfio e stolido dei Black Sabbath. Armonizzava l’inizio della stravinskiana Sagra della Primavera in una «stupid song», ma poi riusciva a convincevi che quei tamarri rumorosissimi dei Grand Funk Railroad, all’indice di ogni serio cultore di «progressive rock» (figurarsi i jazzofili) avevano più «soul» nero nella loro musica di tutto il blue eyed soul inglese.

Quindi li produceva, e suonava pure con loro. Il manifesto ha dato gran risalto, giustamente (vedi Alias del 26 ottobre) a Summer 82 When Zappa CameTo Italy, splendido documentario di un regista zappiano nel profondo come Salvo Cuccia: fatti e misfatti, avventure e disavventure sul tragicomico concerto siciliano di Zappa in mezzo ai lacrimogeni, per nulla turbato dall’accaduto. Con tanto di famiglia zappiana oggi sui luoghi d’origine del chitarrista-compositore più imprevedibile di tutti i tempi.

E il Zappa mai ascoltato? Risuona, per fortuna. Il 23 ottobre, alla Walt Disney Music Hall (location che Zappa avrebbe adorato) la Los Angeles Philarmonic diretta da James Darrah ha offerto la prima «vera« di 200 Motels, partitura ricostruita con tanto di elementi visuali dalla infaticabile e un po’ strega vedova di Zappa, Gail, l’archivista principe del Vault, Joe Travers, e Todd Yvega, l’uomo che programmava le tastiere elettroniche di Zappa quando al Maestro venne l’uzzolo di imparare ad usare le macchine per far eseguire parti che menti, mani e bocche umane allora non riuscivano ad eseguire correttamente. Oggi ce la fanno, ma lui oggi chissà dove sarebbe, più avanti.