Con la pubblicazione dei due volumi riguardanti «Opere, progetti, luoghi» Marco Braghi e Alberto Ferlenga terminano per l’editore Einaudi Architettura del Novecento (Grandi Opere, vol. I, pp. XXII–994, euro 90; vol. II-III, pp. XLVIII-1730 euro 180) iniziata nel 2012 con il volume su Teorie, scuole, eventi. Si tratta della raccolta di 288 voci compilate da un centinaio di storici tra italiani e stranieri che «per parti» narrano ciò che più di rilevante è stato «costruito, pensato e abitato» nel XX secolo. Consapevoli di dovere dare spazio ai brevi racconti degli autori i due curatori, oltre che ridurre oltremisura la presenza di illustrazioni, hanno per necessità e scelta tralasciato eventi e personalità per fissare un loro «paesaggio» della storia dell’architettura. Nulla di diverso da quello di altre storie del Moderno ma per ammissione degli stessi curatori distinto dai «modelli specialistici» o «enciclopedici», eruditi o totalizzanti, che al di là di un effettivo riscontro suona piuttosto come un artificio retorico.

D’altronde, Flaubert alla voce «Architettura» del suo Dizionario del luoghi comuni già appuntava che oltre i quattro ordini classici «nel conto non son compresi quello egizio, né quello ciclopico, assiro, indiano, cinese, gotico, romanico, ecc.». Il lettore non dovrà, quindi, stupirsi se non troverà Prutscher, Wachsmann, Goff, Berlam, ecc., perché non si giudica una storia solo dalla sua completezza. La questione più seria consiste nella scelta di ordinare i vari saggi secondo la logica del dizionario, ma configurandosi questi come fossero delle microstorie. La consultazione pone un problema di scala di confronto che in parte nel primo volume è risolta nella gerarchia delle voci: carattere generale, riviste e libri, scuole e associazioni, mostre e premi. È invece più difficile negli ultimi due scorgere la trama che dovrebbe servire a orientarci nelle plurime esperienze della modernità architettonica e nei quali le «architetture» e i «luoghi» sono elencati senza alcuna e ovvia correlazione dovendo seguire il solo ordine alfabetico. In tal senso una tavola cronologica avrebbe potuto essere utile al lettore che può non essere un «superesperto».

Accade così che l’intreccio narrativo – immaginato come «qualcosa di solidale e unitario» – si presenti invece sotto forma di un maculato registro di documenti, episodi e cronache che non aggiunge nulla a ciò che non fosse già noto. Davanti alle migliaia di pagine scritte ci si chiede quale sia la ratio di un simile impegno editoriale e accademico. Difficile comprenderlo, anche quando i curatori si riferiscono alla geografia invece che alla storia: «una geografia che ha l’ambizione di mappare – come si legge nell’introduzione del secondo e terzo volume – in maniera particolareggiata gli spazi architettonici, i centri urbani, i territori, ma anche le ipotesi che sono rimaste tali». Paul Veyne, il grande studioso dell’antichità classica, scrisse che i geografi hanno un grande principio ai quali gli storici dovrebbero ispirarsi: «non considerare mai un fenomeno senza raffrontarlo con quelli ad esso imparentati distribuiti sugli altri punti del globo».

La storia può essere raccontata sia nel continuum degli eventi che accadono nel tempo o nello spazio sia per items, cioè per categorie, ma solo «dalla comparazione nasce la luce». Non è sufficiente dichiarare l’esistenza di una «significativa rete di relazione» tra gli oggetti di studio, come scrivono Biraghi e Ferlenga, e non renderla esplicita se non rinviarla a un di là da venire. È un peccato che «tanto lavoro», per usare ancora le parole di Veyne rivolte a un saggio del sociologo Eisenstadt, abbia «portato alla luce un reticolo di universali» senza evidenziare «quadri di storia». L’«Architettura del Novecento» ricalca così, nonostante i molteplici e qualificati contributi, il carattere aneddotico e cronachistico (événementiel) di altre opere. Schedata in immagini o ridotta ad elenco la storia dell’architettura si uniforma pronta per essere servita ad un pubblico reso indifferente ad ogni valore critico e interpretativo, come purtroppo attesta lo stesso dibattito architettonico corrente.