Il colore che dà il titolo ad Autobiografia del rosso non è l’unico a cui è affidata la poetica dei lavori di Sabrina Mezzaqui (nata a Bologna nel 1964, vive e lavora a Marzabotto) realizzati per questa nuova personale alla galleria Continua di San Gimignano (visitabile fino al 7 gennaio 2018).

C’È ANCHE IL GRIGIO di Diciassette haiku (tratti da Borges) che per l’artista ha in sé un’ambiguità molto interessante (altrove lo associa alla matita), così come l’avorio di Bianco Naturale, che è quello delle pagine dei libri, materia prima dalle inaspettate metamorfosi. Inizialmente spiazzante, invece, la policromia di Fare fiori, che ha una genesi tutta sua. Quanto al filo è anche simbolo del tempo e della continuità che attraversa l’universo artistico di Mezzaqui, incentrato su elementi chiave come la restituzione dei testi alle immagini attraverso un processo di gesti reiterati, l’importanza del lavoro collettivo e la proprietà salvifica dell’arte.

IN QUESTO, LE FAVOLE hanno sempre qualcosa da insegnare: nel dittico S. T., l’osservatore è chiamato a «entrare» nei due momenti della fiaba Rosaspina (La Bella Addormentata nel bosco dei Fratelli Grimm): «da un lato, c’è il momento in cui tutti si addormentano e dall’altro quello in cui tutti si svegliano – spiega Mezzaqui – In mezzo, ci sono cento anni, un bacio, un dito che si punge». Quella goccia rossa diventa una riga di sottolineatura nelle pagine dei 33 libri che appartengono al suo bagaglio personale. Sono biografie o autobiografie (Basho, Che Guevara, Karen Blixen, Jung, Anaïs Nin, Viginia Woolf…) disposte sullo scrittoio di legno realizzato dall’amico falegname-filosofo Mauro Sargiani (Elefante Rosso produzioni), che è anche l’autore dell’albero-torre che svetta nell’ultima stanza. «Ho lasciato aperti tre libri che avevo già sottolineato anni fa, nel momento della lettura. Spiegano il lavoro, un po’ come quella frase di Paul Valery in cui afferma: ’la mia vita non ha niente di straordinario, ma il mio modo di pensarci la trasforma’».

SABRINA MEZZAQUI progetta scrivendo non disegnando, facendo seguire momenti molto solitari che «si nutrono di silenzio, passeggiate, letture» con fasi di grande coralità. Condividere la manualità ha qualcosa di rituale ed è anche una sfida alla noia. «Ci sono cose che se fatte lungamente da sole sono semplicemente soporifere, invece se le si fanno insieme rendono tutto più leggero». Bianco naturale nasce proprio come pratica di condivisione quando nel 2016, nell’ambito della rassegna Ciò che ci rende umani (organizzata dal Teatro Valdoca di Cesena) l’artista era stata invitata a tenere il laboratorio Meditazione delle mani. «Si dovevano portare forbici, citazioni sul valore della manualità e la tazza per il tè. Io ho messo il resto, abbiamo lavorato in silenzio tagliando la carta in foglioline e infilando perline».

IN QUEI DUE GIORNI è stata realizzata la collana lunga novanta metri (la memoria del processo creativo è affidata alle foto in bianco e nero di Paolo Carraro) contenuta nel recipiente di argilla bianca realizzato da Maria Cristina Navacchia che è circondato di polvere di marmo. Ancora una citazione significativa nell’opera 618 (E.D.): Emily Dickinson. Analizzando i versi di questa poesia Mezzaqui ritrova, in particolare, il potere se non taumaturgico certamente terapeutico dell’arte.

NON TANTO IN SENSO contemplativo, quanto operativo. Le mani che appuntano spilli o rattoppano o quelle che disegnano e colorano come in Fare fiori. «Questi cinquecento fiori sono stati disegnati a mano, in un anno, da un’unica persona. Questa persona è mia madre. È la prima volta che faccio un lavoro aiutata da lei. Mia madre è psicotica, vive in una struttura da tanto tempo. Disegna ogni giorno. È come materiale incandescente, per me, ma è anche un’esperienza salvifica».