Prendi un paese che ha modificato in pochi anni gli elementi del dibattito pubblico incentrandolo su argomenti populistici, prendi una platea imbonita da un presidente del consiglio mai eletto, che sta destrutturando integralmente la Costituzione a suon di slogan e ritornelli – riforme-coraggio-innovazione – ma è del tutto organico alla filiera di potere da sempre a governo dell’economia e della politica.

Aggiungi un ceto politico e imprenditoriale che ha da tempo introiettato un’idea della cultura come momento inessenziale alla formazione che conta (quella delle competenze professionali) e il suo nuovo guizzo di regalare opinioni ed expertise sui programmi accademici e il reclutamento dei docenti.

E poi prendi un’accademia da sempre docile e conciliante con il potere, chiusa nella propria inscalfibile autoreferenzialità, sorda, muta e cieca al dolore acuto del mondo che la circonda.

Avrai il pasticcio dei recenti sussulti di protesta che vengono dalla docenza universitaria, divisa sui metodi, sui fini e finanche sulle ragioni della «astensione temporanea» dalla «VQR 2011-14», l’esercizio di selezione e invio all’Agenzia Nazionale di Valutazione (Anvur) dei risultati del proprio lavoro scientifico, orribilmente definiti «prodotti» (la metaforicità qui e altrove è tutta tristemente mercantile a mostrare di quale pensiero dominante ossessivo siano vittime i valutatori e i loro mandanti).

La questione non è banale: da queste valutazioni dipenderanno i fondi da assegnare – più spesso tagliare – alle Università e il dirottamento delle risorse disponibili a pochi centri di «eccellenza». In più, in nome della salvifica semplificazione, il partito del premier sta lavorando alacremente a sradicare le università e i docenti dalla pubblica amministrazione (la trasformazione delle università pubbliche in fondazioni private: vedi le anticipazioni della piddina Puglisi, «Il Resto Del Carlino», 23 ottobre).

Di fronte a una tale apocalisse, il corpo docente italiano continua, nei casi migliori, a interrogarsi sul «che fare» e a baloccarsi nella scelta dei diversi sistemi di boicottaggio della VQR. A dirla tutta, non si capisce neanche bene per quale motivo, dal momento che ognuno ha il suo, sacrosanto: i disservizi e le carenze tecniche della procedura, gli stipendi bloccati all’infinito, l’assenza, nella legge di stabilità, persino del riconoscimento giuridico degli scatti di anzianità. E inoltre le promesse non mantenute, le progressioni di carriera impedite, il turn-over strangolato, da ultimo anche qualche timida considerazione sugli effetti distorsivi di valutazioni condotte con metodologie pseudoscientifiche al solo scopo di punire e legittimare la riduzione delle risorse, accelerando il collasso dei più deboli.

Tutte queste ragioni hanno – beninteso – una loro legittimità. Non si può, tuttavia, non rilevare come le diverse mozioni oscillino contradditoriamente dalla vertenza sindacale-corporativa ai tentativi, non sempre riusciti, di articolare la complessità politica delle rivendicazioni in atto.

Ci si tiene, in ogni caso, ben lontani da una netta presa di posizione contro il sistema neoliberale della formazione: la critica dei dispositivi della valutazione e del merito che vorrebbero misurare e omogenizzare le forme del sapere. Solo una critica generale e sistemica sarebbe in grado di contraddire su un punto non irrilevante la corrente riconversione tardocapitalistica dei saperi.

Proprio per questo sarebbe ora che l’accademia italiana non perseguisse come piromane e incendiario chi attenta alle quiete tenebre di chi pensa per sé e si impegnasse da subito a ricomporre pratiche e soggettività disperse in quelle che, altrimenti, rischiano di configurarsi come mere manifestazioni di disagio.

Sarebbe ora di guardare in faccia l’agonia ignorata di un paese stremato dall’austerità e dal declino, senza un euro per la ricerca e le borse di studio, in cui crescono i neet e la fuga dei cervelli. Sarebbe ora di riconoscere diritto di cittadinanza a bisogni individuali e collettivi sempre più umiliati da una crisi che toglie il fiato: le lotte studentesche per il diritto allo studio contro forme di vita sempre più mobili e precarie o la fondamentale battaglia dei ricercatori non strutturati contro l’espulsione definitiva e di massa da una università avviata a una rapida desertificazione.

Solo così si potrebbe finalmente superare anche l’incertezza delle forme di lotta messe in campo dalla protesta contro il sistema di valutazione: bisogna avere il coraggio di ammettere senza ipocrisie che l’«obiezione di coscienza», per cui i più coraggiosi si limiteranno a lasciar fare il ‘lavoro sporco’ (la scelta delle pubblicazioni da selezionare) alle strutture di riferimento dei docenti (i dipartimenti), da sola non ha alcuna force de frappe e rischia di essere una protesta per finta. Soprattutto se, ancor prima di avviare una seria azione di boicottaggio, ci si dichiara disarmati e disposti a collaborare, a uso e consumo dei più tiepidi e allo scopo di non recare alcun danno ai singoli o ai dipartimenti. Ci si dichiara in agitazione, ma si preannuncia urbi et orbi che si mollerà tutto al primo ostacolo perché non si è disposti a rimetterci niente.

Chiunque abbia una sia pur minima esperienza di rivendicazioni e di lotte, sa benissimo che una simile incapacità strategica è giustamente destinata al fallimento. Anche perché è la realizzazione tragica della definitiva demarcazione tra il lavoro svolto da ricercatori e docenti all’interno delle Università e la coscienza politica di questa funzione.

È tempo di uscire dall’ombra e mettere i nostri nomi dietro atti credibili di resistenza. L’iniziativa lanciata dagli estensori della lettera-appello pubblicata dal manifesto per la giornata di mobilitazione pubblica in favore del diritto allo studio e alla ricerca (Università di Napoli, 11 febbraio) ci sembra un buon inizio. Una scommessa da immaginare, praticare ed espandere, convinti che l’università non sia quella dell’austerità, del merito e della valutazione, ma quella in rivolta e in continuo movimento.

  • ricercatrice, Università di Bari