L’Università del Sud è sotto attacco? Parrebbe di sì, a giudicare dal dibattito di questi giorni. I fronti sono molteplici e alcune incursioni provengono anche da nemici insospettabili. I tempi però sono talmente grami che non ci pare proprio possibile consentire con la massima dei Proverbi: «Sono leali le ferite inflitte dalla freccia di un amico».

A proposito di tasse

Il fuoco di fila è stato aperto da una deputata di Liberi e Uguali, Elisa Simoni, la quale, invitata ad una trasmissione televisiva per illustrare la proposta di abolizione delle tasse universitarie avanzata dal presidente Grasso (proposta che deve essere discussa e valutata solo all’interno di un quadro più comprensivo e che ha in ogni caso il merito di aver in parte riportato, dopo il clamoroso sciopero dei docenti, l’università al centro del dibattito pubblico), ha chiesto – testualmente – ad un suo interlocutore: «lei pensa che una famiglia della classe media del Sud possa far studiare il proprio figlio a Roma, con le tasse che ci sono?».

Ora, l’affermazione potrebbe passare sotto silenzio se non presupponesse almeno tre idee quanto meno contestabili: la prima è il sottintendere, come un dato di fatto inoppugnabile, e ineluttabile, che un’università romana (o milanese o pisana o bolognese…) sia sempre e comunque migliore di un’università meridionale: perché sobbarcarsi, sennò, gli alti costi di trasferta di uno studente in una grande città come Roma, dove un posto letto può arrivare a costare 500 euro? Perché non fare l’esempio di uno studente di Sondrio che voglia iscriversi all’università di Palermo?

La seconda idea è quella, assai discutibile, che le sole tasse universitarie siano l’ostacolo fondamentale alla mobilità studentesca, il che è palesemente falso, a meno che non si pensi alle università private, dove le rette sono effettivamente insostenibili per le famiglie della classe media.

La terza più precisamente non è un’idea ma una non-conoscenza: del fatto cioè che le università, tutte le università italiane, comprese quelle meridionali, hanno oggi molti strumenti per favorire la mobilità studentesca europea, un tipo di mobilità più significativo e arricchente per la generazione-Erasmus. Strano poi che la Simoni non abbia fatto cenno ad un altro tipo di mobilità, cui sarebbe il caso di pensare: quella dei docenti, sulla base del modello francese (più volte evocato ma mai analizzato durante la trasmissione).

Freud sosteneva che i lapsus, se di questo si fosse trattato nel caso della Simoni, non sono mai neutrali, non avvengono senza significato: presuppongono rimozioni, tendenze inconsce, rimozioni di verità cui fondamentalmente si crede. Ma ancora più inquietanti delle disattenzioni sono le parole dette per omaggiare un presunto sensus communis, per captare benevolenza dell’uditorio, per individuare soluzioni semplici a problemi complessi, per eludere la ricerca di responsabilità.

Il caso Cantone

È il caso, a me pare, delle parole pronunciate da Raffaele Cantone, presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, in un recente convegno a Padova: «c’è uno iato enorme – ha affermato Cantone – fra università del Sud e del Nord, che rischia di essere sempre più amplificato dalla logica di dare i contributi maggiori a chi produce meglio, perché finisce per rendere ancora di più zavorre alcune università che forse sarebbe proprio il caso di chiudere».

Si analizzi la logica del periodare: si dà per scontato che vi sia uno «iato», una distanza enorme tra università settentrionali e meridionali. Non si capisce però quale sia, questo iato. Me ne vengono in mente due, di iati. Quello, storicamente comprovato, dell’alto numero di Grand commis, alti magistrati e funzionari di Stato provenienti da università meridionali, storica fucina di élites della nostra nazione. Un altro cleavage invece è meno commendevole, ed è quello creato e acuito dalla logica dei finanziamenti ordinari e premiali alle università dopo la nascita dell’ANVUR (Agenzia Nazionale Valutazione Università e Ricerca, paternità ministro Mussi) e della legge 240 (maternità, ministra Gelmini).

Una logica che definirei da Sceriffo di Nottingham: dare di più a chi ha di più, dare di meno a chi ha di meno. Promuovere chi non ha bisogno di promozione; affossare chi, anche per contesti socioeconomici e culturali, è in difficoltà. Qualcosa di molto lontano da quel principio di solidarietà che è sancito nell’articolo 2 della nostra Carta costituzionale e che un giurista dovrebbe ben conoscere. Una logica competitiva, quasi di guerra (commerciale): lo studente inteso come cliente; il “merito” come parola passepartout che legittima indici di qualità indiscutibili, quasi un nuovo diritto naturale fisso, vero e immutabile; gli algoritmi sapientemente orientati (uno di questi è il famigerato Punto organico) alla allocazione delle risorse a macchia di leopardo, per mascherare quel sotto-finanziamento complessivo che colpisce proprio il “capitale umano” delle università; le anonime valutazioni della ricerca (non giustificate, come nel caso della VQR, un grande Panopticon che, contrariamente a quello che è sancito dalla legge, incide pesantemente sulle situazioni soggettive dei singoli valutati) che privilegiano contenitori a contenuti, e che stimolano o accordi di non belligeranza interni ad un settore scientifico, oppure il bellum omnium contra omnes.

Una logica che va ben al di là del publish or perish e che è quella del mors tua vita mea, della lotta e della selezione ‘naturale’ per l’accaparramento di risorse sempre più esigue. Non più una Accademia della cooperazione, aperta e universale, ma una botteguccia che produce cose, che «produce meglio», come un opificio, per utilizzare le parole di Cantone. Ma il meglio cos’è, per l’università? Da chi viene stabilito? Si pensi ai fondi FFABR (=Fondo per il finanziamento delle attività base di ricerca; la neolingua degli acronimi è imperante), distribuiti secondo discutibilissimi criteri, stabiliti dall’ANVUR, per cui tre monografie valgono meno di tre brevissime note pubblicate su riviste di fascia A (ovvero di ‘eccellenza’), individuate proprio dall’ANVUR.

Questa logica che, per usare l’espressione di Guido Rossi, è quella del conflitto di interessi epidemico, è penetrata anche all’interno dei singoli atenei: le risorse non sono destinate, come sarebbe logico, a sostenere i dipartimenti più in difficoltà, per promuoverne le risorse interne maggiormente dedite alla ricerca e alla didattica, ma a puntellare chi ne possiede già in abbondanza. Questo conflitto asimmetrico, nel quale contano posizioni fissate da interventi non perequativi, sarebbe stato un tempo definito “socialdarwinismo”, e avrebbe incontrato la viva opposizione di una opinione pubblica oggi sempre più distratta.

Certo, Cantone segnala, accorgendosi delle patenti sperequazioni, che la logica dei finanziamenti è strabica e ingiusta, ma la percezione dell’esistenza di un meccanismo instabile e inefficiente viene subito dopo superata e cancellata dal riferimento, a mio avviso inaccettabile, alle università “zavorre” del Sud.

Raffaele Cantone è un magistrato nato nel Sud. Sa bene che scuola e università spesso sono i soli presidi non armati, nel Mezzogiorno, della legalità, della cultura e dello sviluppo. Parlare di zavorre, riferendosi alle università (meridionali), equivale a intendere queste ultime come pesi inutili, da tagliare senza costi sociali, ma con sicuri (sebbene non specificati) guadagni per la collettività. Così non è: affossare o eliminare alcune università meridionali, o anche alcuni Dipartimenti, equivale, semplicemente, ad impoverire ulteriormente il meridione tutto. Le università, le scuole, non esistono «per profitto» (secondo il titolo del bel libello di Martha Nussbaum).

Non attenua la gravità delle sue parole il fatto che Cantone abbia successivamente specificato che non è «sua intenzione chiudere alcune facoltà napoletane» (perché, quelle della Calabria o della Sicilia, della Puglia o di altre province campane sì?). Su tutto, infine, aleggia uno sgradevole ricordo: quello delle famigerate parole di un ex ministro della Repubblica, settentrionale, il quale giustificò i tagli lineari, da lui ideati e applicati a scuola, cultura e università, con l’affermazione: «con la cultura non si mangia». Zavorra, appunto, pesi morti.

Questa modalità di ragionamento post hoc ergo propter hoc, questa confusione di effetti e cause, ulteriormente complicata dal suggerimento di terapie quasi farmacologiche (combattere il ‘male’ con il “male”), pare azionarsi implacabile quando al centro dei discorsi del presidente Cantone vi sono le università: ci si ricordi dello scandalo suscitato dagli accordi intrapresi all’interno di un settore scientifico-disciplinare (il Diritto tributario) per abilitare certi, e non abilitare certi altri, ostracizzati. Qualcuno si è mai domandato perché docenti così esperti e prestigiosi, come quelli implicati, alcuni dei quali arrestati, hanno voluto rischiare così tanto per una semplice abilitazione (che non è un concorso: un abilitato non ha per, il solo fatto di essere abilitato, diritto ad una cattedra…)?

Io azzarderei questa ipotesi: poiché quello specifico settore disciplinare, come molti altri, si intreccia strettamente con la professione privata, forse la rilevanza di quelle abilitazioni era incrementata proprio, direi esclusivamente, dalla ricaduta professionale delle stesse. Come a dire: non è la professione ad essere funzionale all’accademia, ma questa alle professioni.

Ebbene, la terapia che al tempo suggerì il dott. Cantone per «combattere la corruzione nell’università» (sebbene in quel caso non si trattò propriamente di episodi corruttivi: e un giurista dovrebbe sempre usare accortamente i termini) fu quella, semplicistica e non meditata, di «far entrare il mondo delle professioni nell’università».

Oppure, altro esempio di logica inversa, un’altra affermazione patavina per cui il fine di limitare (giustamente) la moltiplicazione delle università telematiche private dovrebbe essere conseguito mediante l’abolizione del valore legale del titolo di studio.

L’università è un mondo complesso, ma è anche un settore decisivo per le sorti di un Paese moderno. Parlarne con approssimazione è il peggior torto che si possa fare. Non all’università: al Paese tutto.


Professore di Filosofia del diritto all’Università di Salerno