Nessuna istituzione ha subito la medesima pressione riformatrice a cui è stata sottoposta l’università negli ultimi quindici anni. Dalla riforma Berlinguer, quella cosiddetta del 3+2, fino alla riforma Gelmini e alla sua applicazione ancora in fieri, non c’è stato sostanzialmente anno in cui l’università non abbia dovuto impegnare risorse e energie a non finire per applicare provvedimenti e procedure che ne hanno profondamente modificato l’assetto. Provvedimenti e procedure decisi perlopiù, se non sempre, al di fuori dell’università stessa, accusata, secondo la narrazione che tanto piace al potere politico, a quello economico e alla grande stampa borghese di questo paese, di essere una putrida palude da risanare, la quale certo non può essere bonificata dall’interno, da coloro che l’hanno ridotta quello a che è, ma solo da poteri e da soggetti, e perciò da logiche e dinamiche, del tutto esterni. È uno storytelling potente, quello che sostiene questo tipo di necessità: fa infatti leva sugli umori più efficaci di questo tempo, dai privilegi della casta, alle autoreferenzialità chiuse, dalle baronie feudali, alle malefatte concorsuali. E di fronte a questi, sembra che qualsiasi analisi di dettaglio, qualsiasi tentativo di pensare il ruolo e la funzione della più importante istituzione educativa moderna si dissolva come pulviscolo contro il vento impetuoso di un cambiamento necessario, di un cambio di verso ineluttabile e inaggirabile, di un nuovo che deve essere adeguato alle esigenze dei tempi, oppure, quanto è accaduto a partire dalla riforma berlingueriana del 1999 non è un semplice maquillage esteriore (come forse è apparso all’inizio al corpo docente che ha semplicemente assorbito e educatamente applicato il nuovo modello), non è un intervento che abbia coinvolto semplicemente un peculiare aspetto tecnico-organizzativo piuttosto che un altro.

Quanto è accaduto è descrivibile piuttosto come uno smottamento dell’idea stessa di università, una rimodulazione del carattere profondo di ciò che essa è stata all’interno della nostra civiltà. Ora, non è che non sia possibile toccare questo carattere profondo, ripensare dalle fondamenta il ruolo e la funzione della formazione universitaria però perlomeno impressionante che questo sia avvenuto e avvenga come un semplice atto di amministrazione, come qualcosa che non riguarda di fatto l’idea che possiamo avere della ricerca e della formazione nel XXI secolo, ma solo come un ritocco procedurale di tipo amministrativo, che serve a dare, come si suol dire di questi tempi, efficacia ed efficienza al sistema. Una ottima base per impostare un discorso critico sulla trasformazione dell’università in grado di pensarla all’interno di un orizzonte ampio e complesso è il bellissimo libro di Federico Bertoni, pubblicato da Laterza all’interno della collana Solaris Universitaly La cultura in scatole (pp. 139,  euro 15, 00), davvero notevole, non solo perché riesce a organizzare all’interno di un quadro coerente e compatto una serie di discorsi critici correnti, perlopiù espressi a bassa voce, timorosi dell’accusa di passatismo, conservatorismo e connivenza nostalgica con il potere baronale, nei dei dipartimenti universitari; ma anche perché riesce a fondere con una scrittura felice, il tono del saggio e quello del racconto, l’ironia e l’analisi, il discorso politico e quello autobiografico.

Non solo: Universitaly riesce a essere corretto e preciso sul piano tecnico, senza mai indugiare nel tecnicismo, consentendo così anche a chi, per sua fortuna, non è avvezzo all’ondata di acronimi che ha oramai invaso e reso criptico il discorso sull’università (Anvur, Ava, Vqr, Cfu, e altri) di comprendere il ruolo che questi interventi, apparentemente finalizzati a un recupero di efficienza del sistema, hanno nella vita concreta di chi vive l’università. A Bertoni non interessa semplicemente raccontare, magari con il tono della lagna lamentosa, la burocratizzazione della vita universitaria, la trasformazione del ricercatore in un amministratore, in un compilatore di procedure e in un esperto di fund raising: al centro della sua attenzione è invece il senso culturale e dunque politico di questa trasformazione. Perché in effetti l’università (e con essa la scuola) è lo specchio per molti versi più vivido di un modello sociale e politico basato sull’ossessione della misurazione, del controllo permanente, della centralizzazione dei dati per la costruzione di profili coerenti. Un modello che concepisce scuola e università come consumer oriented corporations, aziende che sfornano prodotti adeguati (o ritenuti tali) per un mercato che dovrebbe determinarne circolarmente le caratteristiche. Un modello basato su una forte standardizzazione, per cui lo studio dello studente deve corrispondere a un monte ore calcolato a priori, il prodotto della ricerca deve corrispondere a stili e misure a esso imposte dai processi di valutazione, la didattica deve adeguarsi a forme misurabili di intervento. La trasformazione dell’università – Bertoni lo evidenzia e lo spiega in modo davvero lucido – è una trasformazione governamentale, per cui essa si afferma attraverso l’interiorizzazione sotto forma di doveri morali da parte dei diversi attori dei fini che la macchina deve conseguire.

una trasformazione, cioè, che si produce attraverso piccoli e apparentemente del tutto innocui gesti tecnici, come l’inserimento delle pubblicazioni all’interno di una banca dati istituzionale, i registri elettronici, la risposta ai questionari sulle buone pratiche amministrative. In questo modo il potere diventa neutro, è «un macchinario di cui nessuno è titolare», che funziona appunto attraverso l’azione meccanica dei soggetti che lo muovono. Un potere che trova legittimazione nel linguaggio utilizzato, che si tende a fare proprio, assumendolo come una sorta di seconda natura. La decostruzione di questo linguaggio, che si fonda su schemi retorici vuoti, sulla critica di paradigmi narrativi lineari e semplificati che ingabbiano la complessità del reale, è forse uno degli obiettivi più alti che Bertoni raggiunge in questo libro e in cui il suo lavoro di teorico della letteratura incrocia in modo straordinariamente efficace il lavoro di critica dell’ideologia del merito, dell’eccellenza e della valutazione che qui viene condotto. Sono queste infatti le parole magiche su cui si regge la retorica della ‘nuova’ università. Parole a cui non corrisponde nessuna realtà; ma poiché rinviano a concetti che incorporano una dimensione valoriale apparentemente indiscutibile, fondano il dispositivo. In questo senso, come scrive Bertoni, «appellarsi al merito significa legittimare con la forza di una narrazione euforica una situazione di crescente ingiustizia sociale», orientare la formazione all’eccellenza significa rivolgersi a «un fantasma semiotico, un oggetto iperreale che però determina effetti tangibili nel mondo empirico», che «traduce in atti concreti un progetto reazionario e classista»; imporre la valutazione implica «impostare la ‘libera’ attività di ricerca non in funzione della conoscenza ma della modalità con cui saranno valutati i risultati».

Forse è proprio da qui, dalla critica del lessico su cui si fonda questo nuovo modello di università – un lessico tutto fondato su una semantica mercantile: offerta formativa, crediti e debiti, prodotti della ricerca, corporate accountability, ranking, competizione, attrattività, soddisfazione del cliente – che può prendere forma una critica del presente il cui approdo non è affatto un rimpianto nostalgico per modelli per nulla rimpianti, che rischiano per giunta di rigenerarsi sotto la lucida vernice del nuovo.