La vittoria di Corbyn alle primarie del Labour Party è una ottima notizia. La sua affermazione è una nuova e importante conferma che in Europa qualche crepa si affaccia nel muro che per diversi decenni si è elevato attorno alla rappresentazione del neoliberismo come una vera e propria religione, come un dato trascendente e indiscutibile.

Nella sua affermazione, come nell’esperienza di Syriza (che con la straordinaria vittoria elettorale di domenica scorsa consolida lo spazio costituente di una nuova sinistra europea, di governo perché alternativa al liberismo dell’austerity) e di Podemos, torna prepotente l’eguaglianza contro una insopportabile distribuzione della ricchezza, dei privilegi e del potere come chiave di lettura delle contraddizioni del nostro tempo. La diseguaglianza come tendenza crescente, inevitabile e in qualche modo naturalizzata, si è fatta senso comune, fattore di assuefazione anche in tanta parte della tradizione della sinistra in Europa.

Lo schianto della famiglia del socialismo europeo prima ancora che nei risultati elettorali nella drammatica incapacità di articolare una risposta di sinistra alla crisi e ai sui effetti sulla vita delle persone sta lì a testimoniarlo. Nella solitudine di Tsipras davanti al fanatismo rigorista dei garanti dell’austerità, nell’incapacità di opporre ai «muri di Orban» corridoi umanitari e una visione strutturale capace di tenere insieme politica estera, cooperazione, integrazione e accoglienza.

Ma soprattutto nell’assenza di una alternativa al liberismo, incapace per esempio di pensare un green new deal e un progetto di riconversione ecologica dell’economia europea. Di fronte a questo quadro l’anomalia italiana salta all’occhio. Ma si tratta di una anomalia negativa.

Qui, da noi, la sinistra resta confinata in uno spazio marginale. Faccio parte di una forza politica a cui rivendico il merito di aver tenacemente tenuta aperta una porta. Ma so che quello spazio è costantemente a rischio. Abbiamo provato con Italia Bene Comune ad investire su un cambio di rotta. Allora il Pd di Bersani pur non senza contraddizioni sembrava disponibile a provarci. Oggi con Matteo Renzi tutto è cambiato. O riusciamo a spalancare quella porta oppure il rischio che si richiuda, e così resti per molto tempo, mi pare assai elevato.

L’agenda del Governo Renzi corre veloce. Diritti del lavoro, carattere pubblico della scuola, riforma della costituzione e legge elettorale sono il terreno di un attacco generale ai diritti del lavoro e alla democrazia parlamentare. Allora non possiamo più aspettare.

So bene che non esistono scorciatoie e so anche che non basta immaginare di sommare le forze che ci sono. Ma faccio una domanda: c’è qualcuno che al di fuori del circuito degli addetti ai lavori, qualcuno di quelli che vorremmo rappresentare e che attende risposte, che possa ancora capire la frammentazione che caratterizza la sinistra politica italiana? Io penso di no. Per questo dico che una parte dell’innovazione su cui dobbiamo lavorare riguarda anche questo aspetto.

L’unità non basta, ma divisi non c’è storia. Abbiamo allora bisogno di aprire al più presto un processo costituente. Né una federazione né un accordo pattizio, né tantomeno una lista elettorale come già è stato senza successo. Un processo largo e democratico nel quale confrontare posizioni e punti di vista ma soprattutto nel quale ricominciare a cercare. Qualcuno si preoccupa dell’esito di questo processo.

C’è il rischio che ne venga fuori un soggetto minoritario, si dice. Ma forse è nel processo che questo rischio va battuto, anche perché non c’è nulla di più minoritario che non avere una proposta.

Su questo fronte a me pare che la sinistra italiana abbia un rilevante problema di elaborazione. Dall’Europa al lavoro, dal welfare al fisco, dalla scuola alla grande questione dei mutamenti climatici dobbiamo ricostruire un pensiero e un programma. Insomma, dobbiamo ridefinire un punto di vista e un profilo autonomo.

Quella che vorrei è una sinistra che smetta di parlare di se stessa e torni a parlare al mondo, e che a partire dalla sua visione definisca strategia e tattica, alleanze e distanze, invece che riproporre come un eterno ritorno una discussione su schemi politici astratti e del tutto incapaci di parlare alla vita delle persone.

Non mi piace la «vocazione maggioritaria» quando a interpretarla è il Pd di Matteo Renzi. Non mi piace nemmeno se qualcuno pensasse di proporla per noi.

La politica delle alleanze è questione molto seria e sulla quale una sinistra che si ponga il problema dell’utilità della politica prima ancora che del governo non può assumere atteggiamenti schematici.

Ma per porre seriamente questo tema c’è bisogno che una sinistra forte ed efficace torni in campo, serve che torni ad esercitare conflitto, serve che ricominci ad immaginare e a costruire pratica sociale. Altrimenti le alleanze si trasformano in sussunzione e allora è meglio fare altro. Lo dimostra la nostra esperienza. In tutti i casi dove in questi anni si sono sviluppate esperienze positive e capaci di determinare una contro-tendenza, quelle esperienze sono state il risultato di un conflitto, di una contesa, perfino di uno scontro tra proposte di governo diverse tra loro.

Nulla ci è stato regalato. Dunque non perdiamo altro tempo. Si facciano al più presto nuovi gruppi unici a Camera e Senato. Si apra il processo costituente.

Se le sinistre del novecento sono morte, come ha scritto Nichi Vendola su queste pagine, allora elaborare quel lutto è questione che riguarda anche noi.

Allora dobbiamo cambiare tutto. A cominciare da noi.