Non è ancora il colpo di grazia, ma sicuramente il voto che ha deciso l’uscita del Regno Unito è una tappa decisiva verso la dissoluzione dell’Unione europea. Un esito irreversibile che mette all’ordine del giorno la sua ricostruzione su basi completamente nuove: una sua «rifondazione».

Perché è chiaro che in un mondo globalizzato non c’è alcuno spazio per l’autonomia politica delle piccole nazioni. La politica, che per noi è lotta e conflitto sociale, o si sviluppa in un orizzonte per lo meno europeo, o è condannata comunque alla sconfitta.

Chi, nel nostro come negli altri paesi dell’Unione, sostiene che l’uscita dall’Unione o la dissoluzione dell’euro – che di giorno in giorno diventa peraltro più probabile – comporterebbero un guadagno per le classi lavoratrici tradisce in realtà una completa sudditanza al liberismo – teoria che affida le sorti dell’economia al mercato – pensando invece di sottrarsi alla sudditanza nei confronti del cosiddetto «neoliberismo»: una denominazione del tutto inappropriata del pensiero unico dominante, che non è né nuovo (neo) né liberista, perché è semplicemente la teorizzazione dell’approvazione privata di tutto l’esistente – il «creato» – dove a contare sono soltanto i rapporti di forza.

Si vorrebbe infatti far credere che con una svalutazione competitiva, in mezzo a 28 altri paesi impegnati nella stessa politica, il paese potrebbe imboccare la strada di una rinnovata competitività, di un rilancio dello «sviluppo» e, perché no? di una maggiore eguaglianza, quando è chiaro, invece, che nel mondo globalizzato conta solo più l’esercizio brutale del potere; e che più una nazione è piccola, più è impotente. Chi nel Regno Unito ha votato per la brexit lo ha fatto convinto che, per qualche oscura ragione, il suo paese sia ancora un impero. Ma non è così.

Era e resta, come tutti gli altri membri dell’Unione che ha abbandonato, un paese in mano a una finanza mondiale che ignora le ragioni dei lavoratori e dei popoli; di qualsiasi popolo; cercando anche di mettere i giovani contro i vecchi, entrambi tartassati, anche se in modi diversi.

Ma poiché, secondo me, come ho già argomentato (Alle radici del problema europeo, il manifesto, 20.6), il voto inglese è stato soprattutto un pronunciamento – quasi alla pari: una roulette – tra respingere e accogliere profughi e migranti, è del tutto verosimile che, sotto la spinta delle dilaganti pulsioni identitarie e razziste, all’exit inglese altri ne seguiranno, magari anche in forme e con modalità diverse, mettendo comunque fine alla configurazione dell’Unione europea così come l’abbiamo conosciuta.

L’establishment che attualmente la governa non è assolutamente in grado di fermare questa deriva perché ne è anzi il principale responsabile. È stato proprio quell’establishment a presentare come un problema insostenibile l’arrivo di un numero di profughi peraltro inferiore a quello dei migranti a cui fino a qualche anno prima aveva saputo, e avuto interesse, a trovare un posto e un lavoro sul suo territorio (Italia compresa).

E la ragione di questa insostenibilità è semplice: essendosi impegnato a togliere ai propri concittadini (al 99 per cento di essi) tutto quello che era possibile sottrargli – reddito, servizi sociali, «piena» occupazione (o, per lo meno, la pretesa di perseguirla), sicurezza sul lavoro, cultura, democrazia, dignità e quant’altro – era nella logica delle cose indirizzare verso un capro espiatorio il malcontento e la rabbia delle vittime di queste sue politiche di cosiddetta austerity.

La cosa doveva sembrare tanto più naturale in quanto, non essendoci più, secondo la versione dell’economia mainstream, i «soldi» per pagare tutte quelle cose ai cittadini europei (sono stati infatti destinati tutti a salvare o a far prosperare banche e finanza), era ovvio che di «soldi» non ce ne fossero neanche più per mantenere, a spese degli Stati, «tutti quei profughi».

Per eludere gli esiti dissolutivi e devastanti della brexit, quell’establishment dovrebbe invertire le sue politiche di 180 gradi.

Ma non può farlo: primo perché è prigioniero di una cultura, e di un conglomerato di interessi, per le quali «non c’è alternativa». L’alternativa può crescere solo dal basso, contro di loro. Poi, perché la marea identitaria e razzista che quell’establishment ha messo in moto con la leggerezza di un apprendista stregone – il razzismo, ricorda Zigmund Bauman, non si sviluppa se non promosso dall’alto – gli è ormai sfuggita di mano, e viene cavalcata con crescente successo da forze nazionaliste di estrema destra. Forze che lo stanno scalzando dai suoi insediamenti elettorali tradizionali in nome di una finta opposizione alle politiche economiche vigenti, che non ne mette però in discussione i fondamenti, e di una politica di respingimenti, altrettanto impraticabile, ma di grande successo immediato, perché evita accuratamente di prefigurarne le conseguenze: che sono quelle di risospingere i profughi, e magari anche di espellere i migranti, tra le braccia di quelle forze che li hanno costretti a fuggire; moltiplicando i fronti di guerra ai confini dell’Europa – e poi contro di essa – e con essi la spinta a farsi coinvolgere sempre di più, al seguito della Nato, in conflitti senza sbocco.

Ma anche in questo caso un’alternativa vera, fondata su pace, solidarietà e cooperazione, potrà nascere e crescere solo dal basso.

Dunque? Dunque l’Europa, l’ambito insopprimibile di ogni vera politica, va rifondata alle radici, richiamando in servizio il manifesto di Ventotene; ma in un contesto completamente mutato.

Per realizzare non più, solo, una federazione degli Stati europei per evitare che i suoi popoli tornino a scannarsi tra di loro, e collaborino invece a promuovere un comune «sviluppo». Ma già l’annessione (non saprei chiamarla altrimenti) dell’Est europeo all’Unione e alla Nato era servita più a rinfocolare la guerra (fredda, ma anche calda) contro la Russia e altri paesi invisi agli Stati Uniti che a portare avanti la distensione.

Quello che occorre è invece un processo federativo incentrato sulle autonomie locali, impegnato in un grande progetto di conversione ecologica, e capace di includere e renderne protagoniste, anche attraverso il coinvolgimento di coloro che oggi o in un passato più o meno remoto hanno raggiunto il suolo europeo come profughi o come migranti, quelle comunità e quei paesi da cui sono dovuti fuggire: una grande federazione di popoli euromediterranei ed euroafricani per riportare la pace non solo all’interno dell’Europa, ma anche ai suoi confini vicini e lontani.

Utopia? Certo. Ma proprio la brexit e le molte sue conseguenze vicine e lontane ci mostrano che il mondo di domani non sarà più come quello che abbiamo conosciuto.

Niente sarà più come prima (This changes everything) come ha scritto Naomi Klein. E se non sappiamo prima concepirlo, e poi progettarlo, il mondo di domani non riusciremo certo a realizzarlo.