«Oggi il Bundestag tedesco decide sul destino della Grecia», annuncia un notiziario della radio nel febbraio del 2012. È da questo annuncio, inquietante nella sua ostentata naturalezza, che Ulrich Beck prende le mosse per affrontare in un piccolo volume edito da Laterza (Europa tedesca, pp. 96, Euro 12) il tema, spinosissimo, dell’egemonia germanica nell’Europa della crisi. Che il parlamento di uno stato membro possa dettare legge a quello di un altro, non legittimato naturalmente da alcun ordinamento, ma in base a un potere di ricatto che le circostanze gli conferiscono, è un paradosso al quale ci siamo ormai quasi assuefatti. E il fatto che questo potere di decisione passi attraverso i trattati e le istituzioni dell’Unione europea, la valutazione e il giudizio di commissioni e commissari comunitari e transnazionali, perfino attraverso il simulacro di un negoziato, cambia poco alla sostanza e, soprattutto, alla percezione di una profondissima asimmetria, di una dipendenza a senso unico. L’annuncio ci rivela essenzialmente una cosa: la politica europea, in conseguenza dell’architettura comunitaria e delle sue lacune, è ostaggio delle politiche interne dei diversi stati e in particolare di quello economicamente più potente. Dalla Germania europea, quella che abbiamo conosciuto dal 1945 al 1989, saremmo passati, in un breve volgere di anni, – come sostiene Beck – all’Europa tedesca.
La macchina del consenso

Nel clima della guerra fredda e con alle spalle la catastrofe nazionalsocialista, la Repubblica federale non avrebbe potuto respirare altra aria che quella di un europeismo deciso, rispettoso e rigorosamente atlantico. Ma dopo la riunificazione le cose cambiano. Non che la Germania unita potesse fare a meno dell’Europa, ma poteva guardarvi con altri occhi e adottare un diverso linguaggio. L’intero spazio dell’est europeo si apriva alla sua influenza e penetrazione economica. Ma, soprattutto, la riunificazione stessa avrebbe finito col fare da modello al rapporto tra la Germania, forte dei suoi successi economici, e i paesi più fragili dell’eurozona. Beck lo scrive senza mezzi termini: «il modello della politica tedesca di crisi in Europa è dato dalla unificazione con la Rdt in bancarotta. Ma con la differenza sostanziale che nell’Europa della crisi la parola solidarietà è diventata una parola senza senso».
La riunificazione della Germania fu condotta in stile coloniale, con piglio severamente pedagogico e con l’idea che i tedeschi orientali dovessero scontare, in termini di sicurezza sociale e di livelli salariali, le colpe accumulate in più di mezzo secolo di economia pianificata. Non senza suscitare una buona dose di risentimento nella popolazione della ex-Rdt e perfino nostalgie del passato regime. In quel frangente l’accusa non fu di «aver vissuto al di sopra dei propri mezzi», ma di aver lavorato al di sotto delle proprie possibilità in ossequio a un sistema sociale aberrante e soprattutto inefficiente. I professorini occidentali avrebbero dunque assegnato i compiti da svolgere ai somari prodotti dallo «stato degli operai e dei contadini» e sorvegliato che venissero eseguiti a puntino. Tuttavia, poiché gli Ossis, i cittadini dell’Est, erano pur sempre tedeschi e si erano liberati da un regime di oppressione, meritavano anche un po’ di solidarietà. Merito che non spetta invece ai governi dei paesi indebitati dell’area mediterranea che, pur godendo di tutti i vantaggi della democrazia parlamentare e dell’economia di mercato, ne avrebbero dissipato le potenzialità non essendo stati capaci di tenere a freno gli appetiti dei governati nel timore di perderne il consenso. Ciò che nell’un caso come nell’altro non è in discussione è il valore esemplare del modello tedesco. Certificato dal successo economico della Germania. Il cui governo fa del paragone stesso tra la solidità economica della Germania e la fragilità (relativa) di altre economie europee un motivo di autocelebrazione e una poderosa macchina di cattura del consenso. La quale, stando ai sondaggi e alla voce dei media, sembra funzionare egregiamente. Tutto questo produce qualcosa di assai simile a una forma di nazionalismo che consiste nel difendere a oltranza e rafforzare quelle regole e forme dell’Unione europea che consacrano l’ossessione dei tedeschi per la stabilità monetaria e la competitività, conquistate a scapito dei salari e dei sistemi di Welfare state. Ma tutto questo non è a costo zero e anche nella Bundesrepublik in molti cominciano ad accorgersene. Mentre in molti paesi europei crescono rapidamente le forze euroscettiche, quando non schiettamente nazionaliste, e sentimenti antitedeschi si diffondono con toni sempre più aspri, in Germania comincia a svilupparsi e ad assumere dimensioni rilevanti un fronte antieuropeo che considera l’Unione più una zavorra che una opportunità, un peso indebitamente caricato sulle spalle dei virtuosi lavoratori tedeschi.

Tuttavia resta una incognita, sia sul piano economico che, soprattutto, su quello politico, se e fino a che punto la Germania possa trarre vantaggio dalla fine dell’euro, da un suo eventuale distacco dalla moneta unica o dall’implosione generale dell’Unione europea. Gli industriali non nascondono crescenti preoccupazioni per la contrazione dei mercati europei. Per questa ragione, ci spiega Beck, la cancelliera Angela Merkel avrebbe messo a punto una strategia dell’esitazione e del rinvio, che colloca la Germania non al centro ma sulla soglia di una Unione che potrebbe anche essere abbandonata repentinamente e comunque costantemente ricattata.

Il ricatto di Berlino

Una strategia che centellina la disponibilità di Berlino a mettere in gioco il suo peso e le sue risorse nel tentativo di superare in avanti e più o meno unitariamente la crisi europea. Questo gioco che fa pendere l’intero continente dalle labbra del governo berlinese, da quelle del Bundestag e della corte costituzionale di Karlsruhe, ha una forte presa sull’opinione pubblica tedesca e rafforza il consenso interno al governo di Berlino. Nonostante il fatto che sul piano continentale le ricette made in Germany non producano altro che un drammatico aggravamento della crisi e una minaccia sempre più incombente di instabilità sociale. È sotto gli occhi di tutti il fatto che la recessione prodotta dalle politiche europee di stabilità e di austerità aggravi l’indebitamento pubblico in un circolo vizioso senza fine, che l’abbassamento degli spread nei paesi mediterranei si accompagni alla crescita della disoccupazione (anche per quanto riguarda il lavoro intermittente e precario), alla perdita di innovazione e capacità produttiva. Detto in forma sintetica, la politica interna tedesca ha un riverbero europeo che ostacola la politica interna e la ripresa economica di altri paesi membri e dell’unione in generale. È il brodo di coltura più propizio per il ritorno nefasto dei nazionalismi. A testimonianza del fatto che l’Europa politica è, in larghissima misura, ostaggio delle sovranità nazionali che si affrontano, si dividono e si accordano secondo gli schemi più classici della diplomazia. Dall’interpretazione dei trattati internazionali alle alleanze tattiche tra stati, dal ricatto alla concessione di condizioni di favore. E la diplomazia è notoriamente una sfera al riparo da ogni «interferenza democratica» e interamente condizionata dai rapporti di forza internazionali e dalla loro asimmetria. Il punto di vista tedesco dimostra, aldilà dalla pretesa di rappresentare un modello continentale, come la politica europea degli stati membri dell’Unione si dia oggi nelle forme di una «politica estera». Aspetto che l’inasprimento della crisi non ha fatto che accentuare sempre di più, accrescendo lo squilibrio tra i paesi più forti e quelli più deboli.

Beck fa ricorso, come è noto, al paradigma della «società del rischio». Una condizione nella quale la modernità è chiamata a confrontarsi con le criticità che essa stessa ha prodotto e di cui finisce col perdere il controllo. La crisi consisterebbe insomma in un esempio di quelle catastrofi sistemiche, di quelle minacce incombenti, che, contrariamente allo scontro amico-nemico, solo la cooperazione tra stati e istituzioni è in grado di fronteggiare. Ricondotto alle politiche interne dei singoli stati – e il caso italiano ne costituisce un esempio tra i più chiari – questo punto di vista condurrebbe a privilegiare le grandi coalizioni e le «larghe intese». Ciò che il paradigma del «rischio» mette in ombra è il fatto che la crisi globale, diversamente dalle catastrofi naturali, è attraversata da linee di divisione e di conflitto non ricomponibili. Il processo di accumulazione del capitale finanziario non può scendere a patti, almeno fino a quando i rapporti di forze glielo consentiranno, con il livello di vita e le libertà dei cittadini europei. E questo accade anche in Germania dove il segno più (ma fino a quando?) degli indicatori economici si accompagna a un workfare severo per non dire spietato e a un enorme potere di ricatto sul lavoro vivo che si traduce nel potere di ricatto esercitato dal governo di Berlino sull’intero continente. Che a sua volta funziona, in chiave nazionalista, come principio di legittimazione dello sfruttamento interno e conferma del modello tedesco.

Queste linee di conflitto non passano solo tra europeisti e difensori delle sovranità nazionali, ma le attraversano e le confondono. Nei secondi la strada non conduce altro che verso destra in una velenosa combinazione di protezionismo (più o meno finto) e di autoritarismo (decisamente vero) o nel perseguimento di una egemonia nazionale sul processo di integrazione europea, l’«Europa tedesca» appunto. Nel campo dei primi la partita è difficile, ma aperta.

Ostaggio delle oligarchie

Ci troviamo di fronte una unione sempre più ostaggio di un negoziato tra governi delegittimati dall’implosione dei dispositivi della rappresentanza e accomunati da una indiscussa fede neoliberista, comunque logorati dalla stretta di una crisi di cui non riescono a venire a capo. La costruzione dell’Europa politica non può essere lasciata nelle mani di questi attori, affiancati da una burocrazia imperscrutabile e compromessa. Ma faticano ancora a prendere forma soggetti transnazionali capaci di contrastarli e di affermare una propria politica europea, nei singoli paesi e nelle istituzioni comunitarie, che muova verso una radicale redistribuzione del reddito e delle risorse e sappia aggredire efficacemente il potere delle oligarchie. Senza sottovalutare i rischi del caso forse dovremo passare attraverso una fase di «ingovernabilità» dell’Europa che imponga l’affermarsi di una nuova «agenda» le cui voci, disperse e ancora troppo flebili, si fanno comunque sentire in varie parti del continente. Le uniche voci possibili di quella lingua comune di cui abbiamo massimamente bisogno.