E adesso? La Ue sotto choc invita, per prima cosa, ad evitare «reazioni isteriche» (Donald Tusk, presidente del Consiglio Ue). Ma nelle prime ore dopo il voto per la Brexit, il panico sovrasta tutti, dalle Borse al mondo politico. La prima reazione ufficiale di Bruxelles è stata dei quattro presidenti (Juncker per la Commissione, Tusk per il Consiglio, Schultz per l’Europarlamento e l’olandese Rutte per la presidenza semestrale): «Adesso aspettiamo che il governo della Gran Bretagna renda effettiva la decisione del popolo britannico il più presto possibile».

Bruxelles aspetta che Londra chieda l’applicazione dell’articolo 50 del Trattato di Lisbona che contiene la «clausola di ritiro». Ma già c’è il primo ostacolo, che annuncia una procedura di divorzio difficile dopo 43 anni di matrimonio senza amore. David Cameron ha annunciato le dimissioni, ma solo per ottobre e affermato che sarà il prossimo governo a chiedere l’applicazione dell’articolo 50.

Il fronte della Brexit ha impiegato ore dopo i risultati per esprimersi, una novità per dei vincitori: Boris Johnson, leader in pectore per il momento, ha già messo le mani avanti di fronte alla gravità della situazione e ha affermato che l’uscita della Gran Bretagna dalla Ue si farà «senza precipitazione».

Ma Bruxelles e i 27 hanno fretta. I quattro presidenti hanno fatto sapere che l’accordo concluso tra Londra e la Ue il 19 febbraio scorso «non entrerà in vigore» (cioè non ci saranno le nuove concessioni che Cameron aveva strappato) e che nel prossimo futuro «ogni accordo concluso con la Gran Bretagna come paese terzo dovrà tenere conto degli interessi di entrambe le parti ed essere equilibrato in termini di diritti e di obblighi». I 4 presidenti si dicono «pronti ad aprire rapidamente i negoziati con la Gran Bretagna su termini e condizioni di ritiro dalla Ue». Per Bruxelles, «fino al termine del processo la Gran Bretagna resta membro con diritti e obblighi che ne derivano». Anche se il fronte dei 27 non è unito e l’idea di «punire» Londra probabilmente non verrà seguita, c’è però fretta di chiarire per evitare il «contagio» e l’«effetto-domino».

Gli anti-europei di tutti i paesi hanno già alzato la testa. In Olanda, il leader di estrema destra Geert Wilders, chiede un referendum sognando la Nexit (Netherlands exit). In Ungheria, il premier Viktor Orban ha già promesso un voto popolare sulla politica verso i migranti. In Francia, Marine Le Pen vuole mettere l’adesione all’Ue al centro della battaglia delle presidenziali della primavera del 2017: «L’Ue e l’euro non sono irreversibili», ha detto ieri mattina la leader del Fronte nazionale, lodando la «schiacciante lezione di democrazia» che è arrivata dalla Gran Bretagna. In Germania, Frauke Petry, presidente di Afd, afferma che è «ormai tempo per un’altra Europa, un’Europa delle nazioni».

I governi e le istituzioni europee hanno subito deciso di moltiplicare gli incontri. Prima del già previsto Consiglio europeo del 28-29 giugno, a Berlino lunedì Angela Merkel ha invitato François Hollande e Matteo Renzi, con Tusk. Martedì, Tusk ha convocato un pre-vertice informale a 27, senza Londra. La Commissione si riunisce domenica. Il 28 c’è una sessione straordinaria del Parlamento europeo.

Ma non è ancora arrivato il tempo delle decisioni per colmare il vuoto che lascia la seconda economia della zona euro, potenza diplomatica e militare. È il momento dello choc. François Hollande, che ha convocato due volte il governo e oggi moltiplica gli incontri con le personalità politiche, ha invitato a «un risveglio». Il presidente francese spinge l’Europa a riaffermare «i valori di libertà, tolleranza, pace». Ammette che dopo il voto per la Brexit «la Ue non può più fare come prima». Ed evoca «investimenti, per la crescita e l’occupazione», «una politica industriale» per lo sviluppo delle «nuove tecnologie e la transizione energetica».

Al tempo stesso, Hollande invita Bruxelles a «non perdersi in procedure», a concentrarsi sui grandi temi e a «lasciare agli stati nazionali le competenze che li riguardano».

In Germania, Angela Merkel ha parlato di «colpo all’Europa», di «colpo contro il processo di unificazione» e ha ricordato ai giovani di «non dimenticare che l’idea di unificazione era un’idea di pace». Il suo vice, Sigmar Gabriel (Spd) ha sottolineato che bisogna «cambiare politica». Ma dai primi segnali, dalle capitali emerge l’idea di concentrarsi su alcuni aspetti «pragmatici», un’accelerazione dell’integrazione comunitaria sembra esclusa: oltre al discorso tradizionale sul rilancio economico, troppo spesso rimasto senza seguito, c’è la forte tentazione di insistere sulla questione delle frontiere esterne per rispondere alla crisi migratoria che ha condizionato il voto britannico e più in generale sui temi della sicurezza. Questo rischia di gonfiare ancora di più le fila degli euro-scettici.

Ieri, Jean-Luc Mélenchon del Parti de Gauche, ha chiesto, come Die Linke in Germania, «un nuovo orientamento». Ma ha aggiunto: «La Ue, o cambia o via, la mia candidatura alle elezioni presidenziali è quella di un’uscita dai trattati europei» e ha messo tutto nello stesso sacco, a cominciare dalla contestata Loi Travail «dettata da Bruxelles».

Quando Londra si degnerà di inviare la lettera per attivare l’articolo 50, inizierà il negoziato, che rischia di trasformarsi in una discussione di mercanti di tappeti, perché i governi dei 27 non vogliono che passi l’idea che ad uscire ci sarebbero vantaggi. La Ue vorrebbe limitare i tempi ai due anni previsti per disfare i legami. Poi, con un secondo negoziato, la Gran Bretagna potrebbe venire considerata «stato terzo», come gli Usa o la Cina, pagare i diritti doganali, presentare i certificati tecnici di conformità per l’export e al massimo godere della clausola di «nazione più favorita». È la sola ipotesi che esclude il pagamento di contributi alla Ue.

Invece, una soluzione “alla Svizzera” con una moltiplicazione di accordi bilaterali per settore oppure “alla Norvegese” dove vengono rispettate le “4 libertà” (quindi anche quella di circolazione dei cittadini) comportano entrambe il pagamento di contributi senza avere voce in capitolo sulle decisioni.