Il grande consenso popolare intorno alla candidatura di Stefano Rodotà alla presidenza della Repubblica nel quadro di una convergenza sulla sua persona del M5S e di Sel ha costituito un passaggio politico importante che obbliga a una riflessione. Innanzitutto, il presupposto da cui muovo è l’avvenuto crollo della funzione basilare del diritto costituzionale, ossia la capacità di garantire un’ordinata successione al potere (ne cives ad arma veniant). Questa funzione è prodromica alle altre, tanto quella di tutela dei diritti negativi (vita, libertà, proprietà) quanto quella di costruzione di un sistema di solidarietà sociale (diritti di seconda e terza generazione).

La funzione costituzionale di ordinato governo della successione al potere è stata travolta nel corso della presidenza Napolitano il quale, muovendosi oltre la norma e la prassi consolidata, ha inflitto un vulnus mortale al nostro diritto costituzionale, spostando lo scontro politico sul terreno costituente, con tutti i rischi di violenza politica che ciò comporta nelle attuali condizioni. Che egli lo abbia fatto al fine conscio di continuare nel processo di concentrazione del potere personale o che sia stato mero strumento nelle mani di poteri sovrani globali poco importa. Certo è che in due successivi momenti egli ha salvato il Pdl non sciogliendo le camere quando la fedeltà alla Costituzione gli avrebbe imposto di farlo: una volta concedendo venti giorni di tempo a Berlusconi per una vergognosa campagna acquisti; un’altra «inventando» la «soluzione Monti», preparata con l’ irrituale nomina del presidente della Bocconi a senatore a vita.

Del resto la disinvoltura di chi dovrebbe essere supremo garante della Carta l’avevamo personalmente testata quando recapitammo invano a Napolitano più di 10.000 firme per chiedergli di non firmare per palese incostituzionalità il c.d. «Decreto di Ferragosto», sul quale per fortuna, ma quasi un anno dopo, abbiamo avuto giustizia dalla Corte Costituzionale. Più di recente, l’irrituale «condizionamento» dell’incarico a Bersani e l’ istituzione del Gran Consiglio del Riformismo (il nucleo di un governo del Presidente assai simile alla curia regis) hanno portato all’altrettanto incostituzionale periodo di permanenza di un governo senza fiducia, il tutto in preparazione della propria riconferma in condizioni di potere prive di precedenti e di limiti formali (il 5 aprile segnalavo il rischio del bis proprio su queste pagine).

Nel considerare che più di un dubbio sulla rieleggibilità del presidente era stato espresso dalla nostra dottrina ai tempi di Ciampi, merita ricordare che ci vollero 23 voti per eleggere Leone, 21 per eleggere Saragat e 16 ciascuno per eleggere Pertini e Scalfaro, sicché il terrore panico che ha avvolto il Parlamento (incostituzionalmente eletto) alla quinta votazione è difficilmente spiegabile.

Il terrore per la democrazia diretta (segnalato anche da Marco Bascetta sul manifesto del 24 Aprile), che aveva scatenato le reazioni più «arroccate» dopo il voto referendario di giugno (compresa l’introduzione del pareggio di bilancio in Costituzione con maggioranza «bulgara» per evitare il referendum) si è dunque esteso a quella rappresentativa. Data la scelta di M5S e Sel di sostenere il miglior candidato possibile per quel ruolo esisteva un rischio continuando a votare di bruciare uno dopo l’ altro i candidati dei poteri forti sostenuti dal caro leader. È scattato così il piano di emergenza, opprimendo anche quell’ultima possibilità di mantenere in vigore l’ordine costituito ai sensi del quale il Parlamento in seduta comune vota fino a raggiungere la soluzione.

Poiché il diritto costituzionale è nelle mani della maggioranza, è escluso che Napolitano venga chiamato a rispondere per il suo efficacissimo attentato alla costituzione parlamentare e son certo che ipotizzare l’«alto tradimento» non avrà altro seguito che farmi passare per un intemperante estremista.
La risposta che occorre dare, dopo questa ennesima soperchieria che sbandiera la democrazia proprio mentre l’opprime, è dunque di tipo politico perché il blocco neoliberale contro cui sempre più necessita un Cln ha incassato un’altra vittoria. In questo momento mi pare che il pericolo maggiore venga dal riconoscimento formale (non a caso voluto anche da Renzi) del sostanziale modello presidenziale, che oggi è legato al corpo fisico di Napolitano e che ha quindi fretta di istituzionalizzarsi dati i limiti anagrafici del tempo a disposizione.

Ecco perché sarebbe un disastro tradurre l’esito della resistenza parlamentare alla rielezione di Napolitano in un tentativo di utilizzare in modo salvifico per la sinistra la magnifica personalità di Stefano Rodotà. Il leaderismo, proprio come il presidenzialismo in cui prima o poi esita, costituisce una regressione politica, una rinuncia alla difficile ricerca istituzionale dell’intelligenza collettiva a favore del capo, individuo fisico cui viene interamente consegnato il potere. È la logica del capobranco che prevale sulla ricerca costante, in capo a un gruppo, di darsi una volontà collettiva. Si tratta di una regressione allo stato bruto tanto più pericolosa quanto più debole è il meccanismo di successione costituzionale al potere che oggi in Italia è fragilissimo data la sospensione della normalità costituzionale di cui Napolitano porta tutta la responsabilità politica.

Nelle scorse settimane con Rodotà (ma non sotto la guida di Rodotà, il quale fin dai tempi dei referendum ha rifiutato di esserne leader) abbiamo iniziato il lavoro collettivo della «Costituente per i beni comuni», autoconvocandoci al Teatro Valle per intraprendere un lavoro itinerante, legittimato dalla democrazia partecipativa. In dialogo costante con i movimenti e la cittadinanza attiva, produrremo un codice dei beni comuni capace di ristrutturare il rapporto fra pubblico e privato ricostruendo le basi istituzionali di una democrazia realizzata. Nel farlo stiamo sperimentando un lavoro politico nuovo, il cui valore sta proprio nel comune sforzo di produrre diritto «dal sotto in su», attraverso processi formali nuovi che sappiano raccogliere l’intelligenza collettiva.

Questo processo non è una formula dall’alto di rifondazione della sinistra, né una mera applicazione della democrazia liquida della rete. La Costituente dei beni comuni crea e mette a disposizione un nuovo spazio pubblico, direi quasi la terza camera di un parlamento itinerante, che fa della democrazia radicale la cifra del suo funzionamento. L’equidistanza o forse meglio l’«equivicinanza» rispetto al tentativo di Vendola e a quello di Grillo serve a produrre una controspinta collettiva che, ibridando, costruisca una resistenza istituzionale alla deriva autoritaria in corso e forse in futuro un’alternativa egemonica fondata sui beni comuni. L’obiettivo resta un ritorno alla normalità costituzionale perché la «rivoluzione promessa» di cui parlava Calamandrei sia mantenuta.