Quando parla, Antonio Manuel allarga spesso le braccia, afferrando il mondo con le mani, disegnando traiettorie impreviste con la voce e il suo corpo, come fosse una danza da ballare insieme a  chi ha di fronte. È il suo segnale comunicativo per eccellenza: un gesto accogliente, che include l’interlocutore e lo catapulta al centro della sua poetica. D’altronde, vive a Rio de Janeiro dove quel gesto è di casa: è lo stesso che fa il Cristo redentore dall’alto del Corcovado, rassicurando il viandante sperduto e gli abitanti stessi della cidade maravilhosa.

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Lui però è completamente laico e, soprattutto, fisico: vuole far entrare l’ascoltatore dentro l’anima delle cose, far capire che l’arte non può essere mai confinata in un territorio neutrale. Incide nella realtà e proprio per questo motivo, non può rimanere indifferente alla Storia. «La libertà mi guida. Spesso comincio a lavorare senza sapere bene quale sarà il risultato di un’opera, cosa verrà fuori, ma davanti a me ho sempre la libertà come stimolo», dice scandendo il suono di quella parola.

Quest’anno, Antonio Manuel rappresenta il suo paese, il Brasile (per la precisione, lui è portoghese di origini) alla Biennale di Venezia, condividendo il padiglione ai Giardini con altri artisti, Berna Reale e André Komatsu, nella mostra So Much That It Doesn’t Fit Here, a cura di Luiz Camillo Osorio. Nello spazio «brasiliano» ha costruito i suoi muri di mattoni (Occupations, Discoveries) che poi ha rotto per permettere una via di fuga, per spezzare la lucida geometria delle barricate, disintegrando la polarità tra dentro/fuori, inclusione/esclusione, architettura costrittiva/luogo di utopia. Anche quando, in altri contesti, ha lavorato sulla dimensione ambientale, ha «forato» lo spazio: in Frutos do Espaço, la griglia grafica di una pagina di giornale diventa monumentale elemento virtuale, un  vuoto da impaginare, una struttura-scheletro per immaginare racconti che restino, che non si consumino più nella voracità compulsiva delle ventiquattr’ore e che abbiano il potere di interrompere la meccanicità del processo ingurgitante della stampa. C’è pure Nave in Biennale, una cabina di legno dove l’acqua goccia lentamente su un monitor televisivo smangiucchiando le immagini, erodendo la memoria. E poi, c’è il bellissimo video Semi Otica, album di «criminali» che vengono segnalati con un identikit composto dai colori della bandiera brasiliana, alludendo alle differenze razziali. L’inquadratura iniziale è la facciata di una casa nella favela di Borel e una finestra «buca» la riproduzione del vessillo nazionale.

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Storico compagno di avventure ed esplorazioni artistiche di Helio Oiticica, Lygia Pape e Lygia Clark, Manuel vive a Rio de Janeiro con la moglie italiana Marisa Abate, in prossimità dei suoi due figli. Ha uno studio in una casa antica nel vivace quartiere di Laranjeiras, rigoglioso per vegetazione e per i graffiti che popolano le mura che corrono lungo i marciapiedi. È un luogo che hanno scelto molti artisti, in cui si fa «comunità» ogni giorno, condividendo chioschi, buon cibo e vino, vita quotidiana e, soprattutto, idee. In quell’atelier che fa trasudare da ogni poro delle pareti il suo rigore intellettuale, facciamo insieme un salto temporale ad alta tensione emotiva.  Antonio mostra un breve filmato dove le persone – bambini e adulti – in una piazza pubblica prendono a martellate, fino a romperle, delle scatole di legno. Sono scrigni che contengono misteriosi oggetti artistici. È l’opera interattiva Urnas quentes (1968 e a seguire), «urne bollenti»: quel calore emanato riguardava i contenuti (le notizie politiche che si volevano conservare, i giornali, le poesie, i readymade, i ricordi…), ma anche l’operazione che richiedeva, lo sforzo di «violazione» e il non addomesticato stupore della sorpresa. Antonio, negli anni, le ha date tutte in pasto al pubblico, tranne una: nel 1975 scelse di lasciare una «capsula del tempo» sigillata per trent’anni. Ora sono passati ma lui ride e assicura che non la aprirà. Ha deciso così. Il suo lavoro aveva in sé il germe dell’ambiguità: «Per vedere cosa c’era dentro, eri costretto a frantumare l’oggetto, a esercitare una certa violenza, a mettere in atto gesti di rivolta». Non si poteva rimanere indifferenti. Alla base di tutto, c’era la proibizione, il senso del limite da varcare, l’impossibilità di soggiacere senza ribellarsi alla dittatura e alle sue censure.

Antonio Manuel ha passato la vita a manipolare i giornali. All’inizio, c’erano piccoli interventi, disegni, pitture, frasi spaesanti.  Poi, ha privilegiato la metamorfosi totale, interferendo con grande visibilità. La sua idea-faro è sempre stata suggerita dall’informazione e dalle pagine dei quotidiani: come si può deviare dalla brutalità e rendere poetica l’attualità? Si può riassumere così forse la maggior parte della produzione estetica che ha inciso per decenni la storia culturale in Brasile attraverso performances provocatorie (come Corpo-obra, quando per reagire ai mille divieti governativi si presentò nudo, utilizzando se stesso e la propria pelle come «luogo della rivolta»), oggetti clandestini, azioni concettuali volte allo spi

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azzamento dello spettatore tramite l’ironia e l’alto tasso di impegno politico e civile.

D’altronde, la carta, il suo peso, il suo odore, la sua tattilità hanno avuto un ruolo fondamentale. «Da giovane, lavoravo in un’agenzia pubblicitaria: è qui che sono entrato in contatto con l’arte. Avevo accesso ai libri e a materiali come pennelli e tempere: ho prodotto i miei primi pezzi lì, nel 1963. Amavo molto usare la grafite, per la sua consistenza materica…». Il suo è un background non accademico («non faceva parte della mia traiettoria esistenziale») dove disegno industriale e libero, architettura e filosofia si fondono, regalando inediti scorci sulla realtà.

Ha attraversato anni difficili Manuel: dalla fine degli anni ’60, la repressione ha stretto la tenaglia anche intorno alla sua persona: controllato a vista, non è mai stato arrestato, è riuscito a «svicolare», a non essere ridotto al silenzio. Quando lo hanno censurato, non si è perso d’animo e ha fatto la sua mostra lo stesso, stampandola sulle pagine del giornale, con un atto sovversivo di grande suggestione, non chiedendo permessi a nessuno e disorientando il lettore comune. Denunciava con disegni, titoli falsi e parole in libertà, ma insieme componeva poemi che infrangevano la cupezza di quell’epoca.