«L’unica cosa a cui devo pensare è a non tornare a casa in una bara». Così Drazen Erdemovic, volontario nell’esercito serbo, alla sua terza divisa: l’ha indossata con l’idea di mettere al sicuro la moglie Irina e la piccola Sanja. Nato in Bosnia, da genitori croati, era un capellone con la chitarra e finisce per massacrare i musulmani di Srebrenica. Fino ad essere il solo a confessare, l’unico processato e condannato il 29 novembre 1996 a dieci anni dal Tribunale penale internazionale per la ex Jugoslavia.

Una storia vera nel romanzo d’esordio di Marco Magini Come fossi solo (Giunti, pp. 224, euro 14, eBook 8.99) che può far storcere il naso con la copertina di un soldato russo davanti a un pianoforte in Cecenia e perfino disturbare gli specialisti della «materia» intolleranti rispetto alla prosa letteraria.

Tuttavia, basta il coraggio di un giovane under 30 che spedisce il manoscritto al Premio Calvino e sbreccia il muro delle tante reality fiction a meritare attenzione. Quanto meno per frasi che, poi, non ti lasciano più in pace: «A Srebrenica l’unico modo per restare innocenti era morire». Come le tre voci narranti che comunque impediscono di coltivare pregiudizi: se mai, costringono di nuovo a fare i conti con il fallimento dell’Europa sull’altra sponda dell’Adriatico.

Magini muove Drazen insieme al casco blu olandese Dirk e al magistrato spagnolo Romeo González. E mescola il prima della strage con la sua ricostruzione processuale, dentro l’inerzia dell’Onu fra Sarajevo assediata e la prima linea. Ognuno dei protagonisti cerca, a modo suo, di essere «professionale». Tutti si aggrappano a qualche giustificazione. Nessuno salverà la propria coscienza. E ciascuno reagirà, come può, agli ordini prestabiliti.

Al soldato costretto a fucilare vecchi e bambini fa da specchio il «puffo» assediato dall’impossibilità di reagire. Il giudice riassumerà in una lettera privata ai colleghi del Tribunale la sua obiezione alla legge senza giustizia.

Di certo la Storia è meno lineare di queste tre vicende personali. E l’infinita prospettiva di bare verdi non si lascia condensare in un romanzo. Ma questa coraggiosa prova d’autore s’intreccia con il diario di un sopravvissuto (Emir Suljagic, Cartolina dalla fossa, Beit 2010) più che con gli asettici archivi istituzionali. E anche grazie a Magini sappiamo ritrovare un guizzo di umana obiezione al potere mortifero dell’indifferenza.