Quasi sei milioni e mezzo di siriani non dormono più a casa, sono un terzo della popolazione. Scappano dai combattimenti, dalle bombe, dai cecchini sui tetti, dalla paura di un conflitto che dura da due anni: i ribelli da un lato, l’esercito del presidente Bashar al-Assad dall’altro.
Più di due milioni di persone (registrati o in attesa di registrazione all’Unhcr, l’agenzia dell’Onu per i rifugiati) hanno lasciato la Siria: cinquemila al giorno nelle ultime settimane. In Libano sono quasi, un milione secondo il governo di Beirut, in Giordania oltre 500mila, in Turchia 463mila e 172mila in Iraq, dove da metà agosto ad oggi in 50mila sono entrati nelle zone curde. Altri, quattro milioni 250mila persone, sono profughi nella propria terra. Non hanno varcato i confini come tanti connazionali, ma vagano di casa in casa, cercano rifugio attraverso contatti personali, si trasferiscono dai parenti o dagli amici in altre città, si spostano nelle campagne. C’è chi si nasconde nelle scuole, chi negli edifici abbandonati o «sicuri».
Per molti, come Amina, è una fuga lunga due anni. Ha 29 anni, ma ne dimostra molti di più. Faceva l’architetto a Damasco, ha cambiato casa decine di volte. Ha avuto problemi con la polizia, perché è stata tra gli organizzatori delle proteste del marzo 2011 contro il presidente Assad. «Temevo di essere arrestata da un momento all’altro, se la polizia mi avesse scoperto sarei finita in grossi guai», dice. «In questi ultimi due anni, tra noi attivisti ci siamo fatti forza, affinché restassimo ad aiutare la nostra gente. Ci siamo sempre detti che non ce ne saremmo mai dovuti andare. Fino a qualche mese fa ci ripetevamo che avremmo dovuto continuare a resistere. Alla fine, però, non ce l’ho fatta più. Nascondermi era diventato un incubo: otto mesi fa ho preso la macchina con altri amici e sono venuta in Libano. Era troppo pericoloso vivere a Damasco o nei dintorni». Adesso Amina abita a Shatila, Beirut sud, enclave palestinese, dove fa la volontaria con altri siriani-palestinesi in un’associazione che assiste le famiglie rifugiate.

[do action=”citazione”]«Era un incubo: otto mesi fa in macchina con altri amici sono venuta in Libano». Ora Amina abita a Shatila, Beirut, triste e «sicura» enclave palestinese[/do]

Dopo un anno e mezzo di tentennamenti anche Lubaba, 19 anni, alla fine è scappata dalla Siria. Anche lei ora è nel Paese dei cedri. È arrivata a fine giugno da Harasta, vicino Damasco. «Sono venuta nella valle della Beqa’a con mia madre e mio padre, le mie quattro sorelle e mio fratello. In Siria avevo smesso di andare a scuola, perché avevo paura di non tornare mai più a casa. Si sentivano sempre più spesso notizie di ragazze rapite, proprio mentre uscivano dalle lezioni. Così ho deciso di seguire un corso vicino casa, ho studiato da infermiera. Era più sicuro e anche più utile. Poi sono scappata». Adesso Lubaba risponde al telefono in un ambulatorio per rifugiati vicino Zahlé. «Molti libanesi ci guardano con diffidenza. Siamo tre famiglie in circa 60 metri quadri, la vita è molto costosa per noi. Abbiamo un appartamento, paghiamo 300 dollari. Quando lavoro, invece, mi sento bene. Mi dimentico di quello che ho visto in Siria: bombe, carri armati, cecchini, anche se il viaggio per arrivare qui è molto duro».
Solo il 2,6% dei rifugiati registrati fuori dalle frontiere siriane, infatti, ha 60 anni o più. Per gli anziani è più difficile affrontare un lungo cammino di fuga, con il rischio di dover attraversare il confine a piedi e di corsa, come nella maggior parte dei casi. I più vecchi fanno fatica ad abbandonare la terra in cui sono nati e sopravvivono come possono. Più della metà dei profughi sono bimbi e adolescenti con meno di 18 anni: i piccoli fuori di casa sono più di un milione. Molte donne che lasciano la Siria non vogliono nemmeno registrarsi, perché i mariti o i fratelli fanno parte delle brigate dei ribelli rimasti a combattere, e temono di essere scoperti. Chi può scappa: dentro e fuori la Siria. «Quasi 1,8 milioni di persone hanno lasciato il Paese negli ultimi dodici mesi», ha fatto sapere l’Unhcr. Un anno fa erano 230.670.
Quei 4 milioni di sfollati rimasti nella polveriera siriana sono in balìa delle minacce d’attacco armato degli Stati Uniti, pronti a fare scattare i raid per «rispondere all’attacco con armi chimiche» attribuito ad Assad. Quei rifugiati in casa propria sarebbero in guerra due volte. E finora a nulla sono valsi gli appelli di chi, come il presidente della Mezzaluna Rossa Siriana Abdul Rahman al-Attar, lavora tra i profughi in Siria e da mesi combatte per portare loro aiuti, acqua, cibo, per avere accesso alle zone caldecome i sobborghi rurali di Damasco, Aleppo, Idlib, Qusayr, il nord di Latakia. Servono attrezzature mediche, farmaci e tranquillità per i siriani: una guerra sarebbe un disastro umanitario.