Da un po’ di tempo Giorgio Lunghini, così assiduo alle frequentazioni sindacali cui donava la sua lucidità essenziale, non ci regalava quell’affetto che di persona aveva corrisposto a due generazioni contigue: quella mia e quella dei suoi amatissimi studenti.

Un affetto speciale, un po’ tra l’aristocratico dello studioso ricchissimo di talento e la calorosa familiarità di quanti operano fuori Milano, città avara di manifestazioni dei sentimenti.

Agli appuntamenti politici e sociali degli ultimi anni, si era diradata quella sua comunicazione asciutta e densa (scriveva come Pintor, si diceva di lui) che sapeva arricchire ogni passaggio di riflessione della sinistra e del sindacato lombardo.

Ho avuto la fortuna di apprezzare il suo apporto speciale, quando la Cgil Lombardia provava a raccontare «un’altralombardia» e si faceva carico di uno scontro sociale poco ascoltato dalla politica romana e che oggi arriva, purtroppo da vincitore, nelle istituzioni nazionali.

Un confronto difficile con forze ed umori impastati di ostilità verso il pubblico, indifferenza all’accoglienza e impermeabili a forme di solidarietà che non scadessero nel corporativo e non andassero oltre angusti confini.

Lunghini capiva che già qualche decennio fa prendevano forma le derive di un potere che dalle regioni e dalle valli ricche del Nord sarebbe dilagato oltre il Po. Non solo il frutto di Bossi, Salvini e Berlusconi, ma anche quello correo e più trasversale di Formigoni, della borghesia irridente alle devastazioni ambientali, degli industriali di grido di Varese Milano e Brescia, ancora in vista oggi e non certo sofferenti di fronte alle scorrerie anticostituzionali praticate da governanti amici.

A quella rovina Lunghini aveva contrapposto fin dal suo apparire tutta la raffinata potenza del suo sapere ed una elaborazione che si faceva piattaforma rivendicativa. Vedeva lontano, con quel richiamo insistito – caratteristico anche dei suoi articoli su Il manifesto (qui e qui dall’archivio storico, ndr) – a specifici articoli della nostra Costituzione, in cui individuava obiettivi unitari per la sinistra e che incorporava nelle sue sollecitazioni di fronte ai passaggi più critici.

Forse si era ben accorto che era in atto una violenta torsione della vita politica, con il passaggio dalla logica della rappresentanza a quella della governabilità e, soprattutto per questo, quella politica si allontanava da lui, dal ruolo attivo del sindacato, riducendosi al nucleo duro della competizione per il potere.

Prosciugate le tradizionali identità, contava solo l’imperativo di vincere, e a questa lotteria per il potere molti di noi non hanno più voluto direttamente partecipare. Quando avverrà, sarà a disposizione un materiale straordinario su cui riprendere a pensare e lottare, ricordando la decisione, la critica appropriata e la tagliente gentilezza con cui Giorgio smontava l’antipolitica incombente, ogni volta che comunicava con le persone reali, i suoi studenti o il mondo del lavoro, portatori ciascuno di vissuti concreti.