Bisogna dire apertamente che quando parliamo della scelta di una donna di avere o non avere figli, ci muoviamo in territori infinitamente delicati, complessi e “minati”, che attengono all’inviolabilità della dimensione soggettiva intima e irriducibile di ognuna, ma che al tempo stesso – ed è questo uno dei nodi più incandescenti – sono inseparabili da una molteplicità immane di fattori storici, politici e sociali collettivi.
Certo, di sicuro, con tutto l’affetto per Crozza, e la sua genialità anche nel raccontare “sensatamente” la nostra politica, il che è spesso un paradosso, non bastano gli appelli dal palco di Sanremo per non far spegnere quello che è ormai il lumicino dell’italica natalità.
Per fortuna, mentre gli ultimi più che tardivi exploit istituzionali (campagna “Fertility” e sue aberranti derivazioni), hanno tentato di appiattire il discorso pubblico su una povertà simbolica tranchant, a disconoscere le ataviche responsabilità sociali dello Stato con l’ennesima colpevolizzazione/frammentazione del corpo come del vissuto femminile, il cinema, e sono diverse le opere sull’argomento fiorite ultimamente, sembra manifestare riflessioni e linguaggi completamente altri.
Consideriamo per esempio Lunàdigas, ovvero delle donne senza figli, il documentario di Marilisa Piga e Nicoletta Nesler, presentato a ottobre a Visioni dal mondo, Immagini dalla realtà, a Milano, che sarà ora a Visioni Italiane, Festival della Cineteca di Bologna (dall’1 al 5 marzo).
Ecco, se penso alla scia che questo lavoro si lascia dietro (a interloquire con Sbagliate di Daria Menozzi e Elisabetta Pandimiglio, su cui abbiamo ragionato su “Alias”), la prima immagine è quella del grande cartamodello per abiti su misura che le autrici, immerse a figura intera e piedi scalzi nel frame e nel disegno, tratteggiano lungo il corso del film. Come linee su linee, che si inseguono si intrecciano si sovrappongono, a dipanare componenti infinite, un discorso fluido e in divenire, e soprattutto una appassionante istanza a narrarsi che, secondo una delle più propulsive pratiche femministe, muova innanzitutto da sé, dal proprio corpo-segno e dalla propria storia. In questo, determinante, anche per le ragioni della scelta, si rivela il rapporto con la propria madre e il suo tempo: tanto che alle loro madri le registe dedicano il film, grazie anche all’ausilio, nell’incipit, di scaglie di homemovie.
Tempo e memoria dunque. Perché Lunàdigas è un progetto sedimentato in più anni (alcune delle donne narrate sono intanto mancate, come Margherita Hack e Maria Lai), fatto di interventi individuali e di sessioni di riflessione comune. E se pensiamo a Stato interessante, il documentario di Alessandra Bruno, partitura non giudicante e fresca, che pure consiglio vivamente, dove la scelta di avere o non avere figli è raccontata in momenti della vita in cui è ancora aperta sospesa, talvolta mai compiuta davvero – anche per la difficoltà a contattare il proprio reale desiderio nel bailamme delle aspettative sociali secolari – lì siamo in presenza di un corpo a corpo sguardo, camera e cinque donne, qui invece le voci sono tantissime, da ogni parte del Paese e di ogni età. Comprese le preadolescenti e le ventenni. Eppure ognuna ha un suo spazio. Eppure non è l’inchiesta (impossibile) che si cerca. Anzi. Il tono è aereo, ironico e autoironico, tra musiche anni ‘50, omaggio al tempo in cui le autrici sono nate, bamboline di carta da vestire e rintocchi teatrali di monologhi (Lilith, Rosa Luxemburg, Chanel e persino Barbie). Così si gioca a far crollare ma anche ad abbracciare gli stereotipi sulle donne che non hanno figli, mentre ogni singola voce sgrana coraggiosamente motivi risonanti eppure unici, ragioni di una scelta fortemente voluta o mai avvenuta, istanze legate all’inconscio, alla propria genealogia femminile, alla propria libertà, al rifiuto di una scelta irreversibile (denatalità anche come reazione delle donne alle società più maschiliste e alla solitudine che riserva loro lo Stato, ha affermato Sveva Magaraggia su Pagina99), al lavoro, alla passione politica, all’arte, al partner, alla propria identità sessuale in divenire, alla cura di familiari con disabilità … Pure, dietro una cifra lieve, da donne distaccate alla finestra, come appaiono Piga e Nesler nella locandina, si avverte – e a ragione! – un ribollire latente di rabbia, la voglia di vuotare il sacco, o la borsa …, di reagire a secoli di aspettativa sociale verso il destino coatto della maternità, di esclusione per “mancata produttività”, di stigma, di costrizione a giustificarsi.
E se, diversamente da Sbagliate, dove emerge l’esigenza di una stanza cinematografica tutta per sé da cui le donne che non hanno avuto figli possano narrarsi, senza il confronto diretto col mondo, in particolare con le altre che li hanno avuti e fuori da qualunque loro possibile giudizio, in Lunàdigas, da un lato si “mette in scena” anche uno scambio con donne madri e ragazze che contemplano di diventarlo, dall’altro però, la proposta delle autrici di dare un nome alle donne che non hanno figli (appunto “Lunàdigas”, dal sardo della loro terra, controversa scelta lessicale con riferimento alle pecore che in certe stagioni non si riproducono) – propaga comunque l’esigenza di una appartenenza comune, come a disvelare una barriera invisibile di separazione. Su questo, sugli esiti collettivi di costrizioni ataviche, di ruoli fossilizzati e di stereotipi, credo, sarà necessario interrogarci ancora a lungo.
E se penso poi a opere recenti che indagano invece gravidanza e maternità, come Incinta di Nefeli Sarri, che esalta la sfera assolutamente soggettiva di una donna in attesa, tra poetica videoarte e l’approssimarsi al vissuto personale di Cristina Colonnetti, a volte troppo schermato dal suo essere attrice; o ancora ai lavori di Alina Marazzi fino a Tutto mi parla di te, al coraggio di guardare bagliori e ombre della maternità, mi chiedo se e come sia possibile ricercare in questo antro buio attraverso il cinema e l’arte e per quanto ancora ci muoveremo in orizzonti indicibili perché troppo dolorosi o perché insostenibili per la cattiva, recidiva coscienza di una società.