Desidero restare sul libro di Tommaso Moro al quale era dedicata la rubrica della settimana scorsa, «’Utopia’ al confine della parola». Un titolo che si giustificava per la forte sottolineatura, che nella nota si faceva, di un particolare aspetto del testo di Moro: d’essere, pronunciato dalla viva voce di Raffaele Itlodeo («è andato per mare, ma non come Palinuro, sibbene come Ulisse, anzi come Platone») un resoconto che, nel tempo in cui è proferito, tal quale è ascoltato e, simultaneamente, scritto. E richiamavo la prima traduzione italiana di Ortensio Lando apparsa nel 1548, dove si rende il latino ’sermo’ con ’parlamento’.

Dunque la voce, la parola. È facile constatare come, nel rispetto della convenzione del dialogo filosofico di ascendenza platonica che anima il ’Libro primo’, Moro, nel ’Libro secondo’ («di quel parlamento che fece Rafaello Hytlodeo dell’ottimo stato de la republica utopiense»), non faccia ricorso alla formula d’una conversazione, ma si attenga alla mera dimensione dell’ascolto, propria di chi si astiene dall’interloquire e si dispone, invece, a recepire dalla voce del narratore il racconto nella sua interezza: «pregammo Raffaele Itlodeo di ammannirci ciò che aveva promesso. Egli dunque, quando ci vide tutti attenti e bramosi di ascoltare, raccoltosi per poco in silenzio e meditabondo, incominciò con queste parole». Le prime parole descrivono la forma dell’isola di Utopia che ripete quella della luna crescente, la luna che «rinasce».

E subito Raffaele ritiene opportuno avvertire, da marinaio esperto, che l’accostamento e l’approdo alla terra di quella repubblica sono niente affatto agevoli e privi di rischio. Bassi fondali, scogliere «celate a fior d’acqua» e secche rendono pericolosa la navigazione ed è quasi impossibile evitarne le insidie. Unicamente gli abitanti di Utopia conoscono i transiti e i passaggi sicuri in quello specchio di mare, così che «non senza ragione un forastiero, soltanto con la guida di un pilota del paese, può penetrare sin dentro all’insenatura». Si tratta di un avviso ai naviganti quale potrebbe leggersi in un portolano, ma, sotto specie di metafora, l’ascoltatore è avvertito: solo nel rispetto delle connessioni e solo a proporzione delle misure che ne modulano i percorsi e i costrutti è consentito entrare e, poi, muoversi per i campi e le città di Utopia. Ovvero: le regole, norme, convenzioni e costumi dell’isola non si revocano in dubbio, non sono in discussione ma, semplicemente, si osservano.

O si ascoltano, secondo la modalità impressa da Moro, senza obiettare o eccepire. Il contorno dell’isola è effigie d’una ’luna renascens’. Dice che la perfezione di Utopia è la perfezione propria del corpo lunare: nasce dal mutevole, dal mobile agìto nella regola delle sue vicendevoli fasi. Dire e contraddire sono l’Utopia medesima. L’obiezione è pleonasmo. Esaurite tutte le parole che afferiscono a Utopia e che la configurano compiutamente, una volta denominati minutamente ogni suo tratto e luogo, allorché la voce del narratore tace, non per caso Moro, nella breve pagina conclusiva dell’opera, scrive: «quando Raffaele ebbe ciò esposto, mi vennero in mente, fra i costumi e le leggi di quel popolo, non poche disposizioni che parevano quanto mai assurde (…) tuttavia lo vedevo stanco dal narrare».

Moro evita ogni obiezione. Non appartiene alla schiera di quanti «temevano di non esser giudicati abbastanza dotti se non trovavano qualcosa da ridire sulle scoperte altrui. Lodai perciò le istituzioni di quei popoli e la sua esposizione. Bisognava trovar altro tempo. ’De le istesse cose pensare e ragionare’».