Due corpi nudi in uno spazio bianco. Fanno perno uno sull’altro; disegnano immagini speculari, suggestioni, rimossi, fino a diventare un solo organismo che non è più corpo ma inconscio che si libera attraverso la pelle e il movimento. Shoes on, il nuovo lavoro di Luna Cenere con Michele Scappa e Davide Tagliavini, è stato presentato in anteprima nella suggestiva cornice dell’Auditorium di Sant’Agostino per la seconda parte di Kilowatt Festival che quest’anno si è svolta a Cortona – la prossima tappa sarà a Bologna all’interno di Danza Urbana il prossimo 11 settembre.
Qui incontriamo Luna. Napoletana doc, classe ’87, una delle promesse della danza contemporanea nostrana. Ma non chiamatela «giovane». «Dobbiamo trovare un sistema per cui a 35 anni non si è più precari», dice subito la coreografa e danzatrice che, dopo anni all’estero, ha le idee chiare. Gli studi in Sociologia e Antropologia, una passione per la danza «scoppiata tardi». A 23 anni ha lasciato l’Italia per formarsi alla Salzburg Experimental Academy of Dance. Poco prima della pandemia ha deciso di tornare a casa. E restarci.

Partire e tornare (al sud). Una scelta per niente scontata.

Fu Francesco Cavetta, conosciuto durante uno stage a Napoli, a nominarmi la Salzburg Experimental Academy of Dance e la Laban a Londra. Napoli mi stava strettissima. Feci le selezioni, fui presa per entrambe. Scelsi Salisburgo. Avevo bisogno di ri-scrivermi, sono stati i 4 anni più belli della mia vita. Poi mi sono trasferita a Bruxelles. In Belgio poco prima di andarmene lavoravo ma ero molto irrequieta, iniziavo a stancarmi. Mi attirava il paesaggio artistico italiano, soprattutto quello giovane. Viaggiando ho notato che all’estero il gusto generale si muove in una sola direzione: c’è l’hype del momento e si fa quello. Non c’è un insieme di proposte così vario e ricco come in Italia. Noi abbiamo una cultura del teatro già interiorizzata, e questa vivacità intellettuale e artistica mi ha spinto a tornare. A Napoli ho (ri)trovato Gennaro Cimmino del Centro coreografico Korper, oggi Centro di produzione: mi conosce da quando ho 20 anni, è nato un sodalizio che ancora dura.

«Shoes on», foto di Luca Del Pia

Con «Kokoro», tuo primo lavoro in solo come interprete, hai aperto un discorso sui corpi e sul nudo.

Era un rischio: ci sono arrivata per una ricerca mia, è stata un’esigenza di coerenza rispetto al processo creativo. Il passaggio tra formazione e lavoro non è stato facile. Volevo fare l’interprete, cercavo un coreografo di cui diventare la musa. A un certo punto ho pensato che potesse essere Virgilio Sieni con cui ero entrata in contatto alla Biennale di Venezia. È stato un lavoro molto arricchente ma ero entrata già in un processo personale in cui mi facevo molte domande. Ho iniziato a scrivere il lavoro che avrei voluto fare: è nato Kokoro. Cos’è il corpo in scena? Volevo che diventasse altro, che non fosse solo corpo antropomorfo ma memoria collettiva, suggestioni nello spettatore, elemento paesaggistico in cui ognuno vede qualcosa. Il corpo nudo può astrarsi, soprattutto quando elimini il rapporto frontale con lo spettatore. Se elimini il volto, il genere, si esprime la persona. Tante volte in Kokoro venivo scambiata per un uomo. Riuscire a scomparire è un tema che ho molto caro, la nudità è una strada possibile.

Il lavoro sul corpo è proseguito in «Genealogia», progetto nato nel 2019 coprodotto dal Festival Oriente Occidente che coinvolge gruppi di cittadini non professionisti.

Genealogia è un progetto di scrittura corale che ragiona su come rendere tanti corpi diversi un paesaggio in movimento. Si basa su pratiche molto semplici: ascolto, respiro, contatto reciproco, consapevolezza e messa a disposizione. Creiamo uno spazio «altro», utopico, in cui corpo e sguardo sono aperti, lavorano nel rilassare la postura, per creare una situazione di benessere. Le persone si mettono in gioco, riscoprono la propria fisicità e anche come posare lo sguardo sul corpo dell’altro in maniera gentile, rispettosa. Normalmente non abbiamo un rapporto con la nudità altrui, non sappiamo avere a che fare con il corpo dell’altro, né con il nostro. L’approccio più interessante ce l’hanno le persone più adulte che vengono da tabù secolarizzati. Genealogia è proseguito anche durante la pandemia, abbiamo lavorato per gruppi con sessioni zoom, alla fine è nata una community. Lavorare con amatori, con corpi e menti diverse, è ricchissimo e richiede cura. Mi hanno affiancata 4 assistenti perfomer (Daria Minichetti, Ilaria Quaglia, Lucas Delfino, Davide Tagliavini). Ogni laboratorio ha sempre una restituzione pubblica, ogni volta ci trovavamo a scrivere/riscrivere una partitura: da qui è nato Zoe, in cui ho voluto esplorare fino in fono il tema del nudo. Con Shoes on sto entrando in un’altra fase, ora voglio decostruire e tradire.

Sembri puntare sui processi, sul tempo della ricerca.

Genealogia oltre ai laboratori ha prodotto due spettacoli. Ho avuto il privilegio di fare ricerca, qualcuno ci ha creduto. Agli operatori chiedo di non farci fare solo bandi: scegliete gli artisti e sosteneteli. Create rapporti solidi, fateci crescere. All’estero investono nei percorsi, qui invece di stare in sala a lavorare, stiamo a scrivere bandi. Vorrei che invece di produzioni si parlasse di progettualità. Per me il rischio ora è cambiare, non fare quello che le persone si aspettano che io faccia. Ma per questo c’è bisogno di tempo.