Applicare la legge 194 in Umbria diventa sempre più difficile. Tenendo fede a un impegno scritto persino nel proprio programma elettorale, la presidente Donatella Tesei (Lega) ha cancellato la delibera con cui si consentiva l’interruzione volontaria di gravidanza in forma farmacologica a casa o in day hospital. Da adesso, le donne che vorranno abortire dovranno farsi ricoverare in ospedale per almeno tre giorni, affare peraltro non semplicissimo se è vero che, come si stima, in Umbria due medici su tre sono obiettori di coscienza.

UN PASSO INDIETRO inquietante che vanifica anni di lotte sfociate soltanto nel 2018 in una timida delibera varata dall’allora presidente di centrosinistra Catiuscia Marini in cui si introduceva la possibilità di abortire grazie alla pillola Ru486 entro la settima settimana di gravidanza, imponendo agli ospedali di organizzarsi in questo senso attraverso le prestazioni interne e l’assistenza domiciliare, ovvero il metodo universalmente ritenuto meno invasivo per interrompere una gravidanza.

Esulta il senatore leghista Simone Pillon, che finalmente può riscuotere il pagamento (politico) della propria cambiale elettorale: Tesei infatti fu spinta alla vittoria anche grazie all’appoggio del Family Day, che due settimane prima delle regionali portò il proprio gregge a pascolare a Perugia, con l’entusiasta partecipazione anche dei tre leader della destra italiana, Salvini, Meloni e Berlusconi. Non è un dettaglio da poco, nella regione dei santi e dei monasteri, dove il confronto tra la frangia progressista e quella reazionaria della chiesa si arricchisce ogni settimana di nuove e sempre più dure polemiche tra vescovi, associazioni, sacerdoti e cattolici di base.

«È un atto grave che renderà ancora più difficile la vita delle donne, la loro libertà, la loro autodeterminazione, attraverso la privazione del diritto a scegliere il metodo meno invasivo di interrompere una gravidanza», dice il capogruppo del Pd in regione, Tommaso Bori.

«Durante la crisi sanitaria – commenta in una nota il Forum donne di Articolo Uno – la Società italiana di ginecologia e ostetricia si è dichiarata favorevole ad un impiego maggiormente estensivo dell’aborto farmacologico che in Europa è garantito in maniera ordinaria e con percentuali di molto superiori a quelle italiane».

ED È SULL’ACCESSO agli ospedali che si focalizzano Fabrizio Fratini e Barbara Mischianti della Cgil Umbria: «Si tratta di un provvedimento fortemente ideologico, con un evidente aggravio di costi per il sistema sanitario e che per giunta andrà a intasare ulteriormente gli ospedali in epoca di coronavirus». Il sindacato annuncia anche una mobilitazione contro quello che è stato un vero e proprio blitz amministrativo, avvenuto quasi di soppiatto alla fine della scorsa settimana a colpi di maggioranza, lasciando senza fiato né possibilità di intervento il consiglio regionale.

È L’ENNESIMO CAPITOLO del libro nero della sanità umbra, cominciato quattordici mesi fa con lo scandalo dei concorsi che portò alle dimissioni della presidente Marini e proseguito, dopo la vittoria della destra, con l’ascesa di un triumvirato padano chiamato ad amministrare in sostanziale autonomia i 2 miliardi che ogni anno la Regione mette su ospedali e Asl (il 79% del bilancio). Si tratta dell’assessore Luca Coletto, della sua capa della segreteria Maria Tessaro e del direttore generale Claudio Dario: tutti veneti, tutti vicini a Luca Zaia, che più volte ha affidato loro vari incarichi.

Le acque, però, non sono tranquille: ci sono anche tre indagini aperte nelle passate settimane dalla Corte dei conti. Una sulla costruzione di un ospedale da campo a Bastia Umbria con tre milioni messi a disposizione dalla Banca d’Italia; una sui test sierologici pagati a peso d’oro e una su una serie di contratti onerosissimi stipulati dalla Regione con quattro cliniche private per occuparsi della piccola chirurgia durante la crisi del coronavirus.