Fatalmente posta sotto l’assai contingente segno geopolitico ucraino, l’ampia retrospettiva di Boris Mikhailov intitolata per l’appunto Ucraina, a cura di Francesco Zanot e visibile al Centro Italiano per la Fotografia Camera di Torino fino a questa domenica, ci restituisce in realtà un artista che si definisce tuttora «sovietico» e che travalica ogni collocazione nazionale per situarsi su un versante universale di rara potenza espressiva e visionaria. Orchestrata intorno all’idea chimerica del genius loci, la mostra ripercorre gli esordi dell’autore a Char’kov (oggi Charkiv), nonché i suoi ciclici ritorni nella terra natale, dispiegando immagini che esorbitano dallo spazio sovietico e post-sovietico che le ha generate per assurgere a icona di una umanità a un tempo dolente e sarcastica.
L’opera di Mikhailov delimita infatti il perimetro di un theatrum mundi le cui comparse ora recitano inconsapevolmente se stesse sulla scena circoscritta dall’obiettivo, ora si piegano docili ai desideri del fotografo-demiurgo. È certamente questo il caso di Crimean Snobbism (1981), dove l’autore e i suoi amici, durante le vacanze estive a Gursuf, inscenano un mondo in tonalità seppia ispirato alla triade matissiana «lusso, calma e voluttà», alludendo ironicamente al mito esotico della Crimea, fin dall’Ottocento buen retiro dell’intelligencija russa.

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Un miraggio lontanissimo dai realia della quotidianità sovietica, al centro invece del ciclo Archivio nero (1968-1975), dominato da nudi femminili assai naturalistici che, sullo sfondo di squallidi interni domestici, introducono il tema cruciale per Mikhailov dell’osceno, qui inteso etimologicamente di ciò che avviene dietro le quinte.

Una analoga predilezione per l’informe, bandito dall’estetica ufficiale, riemerge in Superimpositions (1968-1975), dove l’espediente della sovrapposizione di negativi consente di ottenere composizioni surreali che estendono al medium fotografico quella compresenza di piani temporali e spaziali diversi tipica delle immagini mentali. Nel contempo, lo stratificarsi di forme che coesistono in un’unica entità ibrida allude anche al senso di sdoppiamento sperimentato in quel periodo dall’autore, che aveva scoperto la propria identità ebraica solo una volta licenziato dalla fabbrica dove lavorava come ingegnere. Una prospettiva simile a quella che troviamo nel ciclo Krasnoe, fondato sull’ambiguità connaturata a quest’aggettivo in russo («rosso», ma anche «bello») e sull’onnipresenza nello spazio pubblico sovietico di questo colore simbolo, a un tempo, della norma estetica e ideologica.

Con il crollo dell’Unione sovietica è proprio lo spazio urbano a divenire il soggetto privilegiato della fotografia di Mikhailov, sia che si tratti del Majdan di Kiev reso irriconoscibile dalle barricate, sia le vie in questione siano quelle della natia Charkiv, invase da una umanità eterogenea, che sembra trovare nella strada l’unico sfondo possibile alla propria povertà e inquietudine. Eppure, gli scatti di Tè, caffè, cappuccino (richiamo tipico delle venditrici ambulanti), benché focalizzati sulle macerie di una civilizzazione esplosa, fissano pur sempre forme di interazione sociale riconoscibili, per quanto grottesche. Nulla a che vedere con la discesa agli inferi di Case History o Storia di una malattia (1997-1998), il ciclo giustamente celebre dedicato ai bomzhy, i senzatetto alcolizzati che espongono all’obiettivo le proprie nudità (quasi in un disperato tentativo di dimostrare la loro appartenenza biologica al genere umano), oppure inscenano tableaux vivant ispirati alla pittura sacra.