I volti e le maschere della pena, l’ultimo volume pubblicato con Ediesse (pp. 244, euro 16) da La Società della Ragione e curato ancora una volta da Franco Corleone e Andrea Pugiotto, contiene – tra le molte altre e pregevoli cose – una piccola, ma significativa testimonianza di prima mano, e qualche informazione che fa giustizia di alcune della grida che si sono levate contro il messaggio di Giorgio Napolitano sullo stato delle carceri e la necessità di provvedimenti urgenti per ricondurle entro i parametri costituzionali e della Convenzione europea per i diritti umani. I curatori, come ben sanno i lettori di questo giornale, non sono degli olimpici e distaccati osservatori del sistema penitenziario, ma sono e sono stati protagonisti di iniziative per il mutamento del degrado esistente nelle nostre carceri ben prima che il circuito politico-mediatico venisse scosso dal discorso presidenziale.

Della coerenza e della determinazione del Capo dello Stato già si è detto in questi giorni: non è che sia stato morso dalla tarantola la scorsa settimana, neanche a immaginare che la tarantola avesse l’aspetto di un ex-presidente del consiglio prossimo all’esecuzione della pena. L’impegno pubblico di Napolitano contro le indegne condizioni delle nostre carceri comincia prima dell’ascesa al soglio quirinalizio, quando era ancora un «semplice» senatore a vita, nominato dal suo predecessore. La marcia di Natale per l’amnistia nel 2005; e poi le visite nelle carceri, i discorsi, le prese di posizione; fino al convegno radicale del luglio 2011, quando Napolitano pronuncia un discorso allarmato e allarmante, che fa giustizia di tutte le maldicenze dei commentatori d’occasione. In quelle parole, il sovraffollamento penitenziario «che ci umilia in Europa» veniva qualificato come «una questione di prepotente urgenza». Non a caso gli ultimi due esecutivi, entrambi di chiara impronta presidenziale, hanno esordito nei loro rispettivi mandati con due decreti-legge dedicati al sovraffollamento penitenziario(non hanno prodotto un granché – come era prevedibile a vedere la composizione delle rispettive maggioranza parlamentari – ma non è questo il punto, non qui almeno). Corleone e Pugiotto, nell’introduzione al libro, ci raccontano dell’incontro con il Presidente, al Quirinale, di una delegazione di costituzionalisti e garanti dei detenuti firmatari di un appello a lui rivolto perché la denuncia abbia un seguito istituzionale. È il settembre del 2011, due mesi dopo il discorso al convegno radicale. Corleone, Pugiotto e gli altri firmatari presenti chiedono al Capo dello Stato un messaggio alle Camere, ai sensi dell’art. 87, comma 2, della Costituzione, perché il problema sia posto formalmente e le forze politiche siano chiamate a rispondervi. «È un’arma caricata a salve», si schermisce Napolitano: non ha mai funzionato. Ma i delegati insistono e Corleone e Pugiottonel libro rincarano la dose: «anche in ragione di tale omissione presidenziale, il Parlamento ha potuto voltarsi dall’altra parte, fischiettando con sfacciata disinvoltura». «Scrivendo formalmente ai rappresentanti del popolo», invece, «il Quirinale parlerebbe a tutti noi. E come non mancherebbero deputati e senatori che tenterebbero di dare sostanza normativa alle sue parole, così – fuori dalle mura di Palazzo Madama e di Montecitorio – saremmo in tanti a non farle cadere nel vuoto. E a farle rimbalzare dentro le Aula parlamentari moltiplicandone la forza d’urto». Anche a questa pressione civica e civile Napolitano ha risposto con il suo messaggio, con buona pace di ogni genere di complottisti, arrivati fino a dar per certa la premeditazione pluriennale del sovraffollamento affinchè si giungesse allo scandalo e alla condanna della Corte europea dei diritti umani nel momento esatto in cui Berlusconi dovesse essere salvato da una condanna che non prevede un solo giorno di pena detentiva.

Un libro, dunque, questo curato da Corleone e Pugiotto, conficcato nel presente. Eppure non occasionale, né cronachistico. Piuttosto: utile a capire quel che ci accade intorno (e a non parlare a vanvera). Certo, c’è anche la sentenza della Corte europea sul caso Torreggiani, e «le buone ragioni di una battaglia per la riforma della giustizia penale e del suo precipitato in corpi umani nell’inferno delle carceri», fatta di depenalizzazioni, decriminalizzazioni e anche di provvedimenti eccezionali previsti, in caso di necessità, dalla stessa Costituzione repubblicana. Ma c’è anche il pregresso e il contorno, articolato su quattro temi decisivi: la pena nascosta negli ospedali psichiatrici giudiziarii, la pena estrema del 41bis, la pena insensata senza prospettive di reinserimento e di riconciliazione e la pena rinchiusa tra muri e in spazi inadeguati. Volti e maschere di un rancoroso codice della paura e della vendetta che ha preso il posto dell’articolo 27, comma 3, della Costituzione e che ci ha portati dritti dritti fin qui, all’incapacità di amministrare la giustizia senza confliggere con i diritti umani delle persone (detenute), quegli stessi diritti in nome dei quali li condanniamo. Con quale legittimità?