«I veri maestri non sono coloro che rendono facile lo studio, ma coloro che lo rendono difficile». Questa frase la scrivono nel 1969 don Roberto Sardelli e i suoi allievi della Scuola 725 (dal numero della baracca dell’Acquedotto Felice) in una «Lettera al Sindaco» democristiano di Roma di allora, Clelio Darida, per denunciare la condizione di degrado in cui versavano decine di baraccopoli sorte dal malgoverno che aveva devastato il tessuto urbanistico della Capitale grazie all’intreccio tra rendita immobiliare e potere democristiano-clericale. Questa frase potrebbe essere la chiave di lettura del fitto e ricco dialogo tra un accademico militante di Roma Tre, studioso di pedagogia sociale e interculturale, e un prete di frontiera che fece sua la radicalità del messaggio evangelico e decise, per essere credibile, di andare a vivere con un gruppo di baraccati e baraccate di Roma: Roberto Sardelli e Massimiliano Fiorucci, Dalla parte degli ultimi. Una scuola popolare tra le baracche di Roma, Prefazione di Alessandro Portelli, Donzelli (pp. 198, euro 25,00).
Don Sardelli (1935-2019), di famiglia medio borghese, colto seminarista del Collegio Capranica, decide a trent’anni di «tradire» la sua classe e il servile arrivismo di tanti suoi coetanei in corsa per la carriera ecclesiastica, per mettere interamente la sua cultura al servizio degli «ultimi». Scontando, per questa scelta, emarginazione, solitudine e sofferenza. Ma la ricchezza umana di Rita, Maria, Teresina, Cesidio, di quella «umanità nuova» che abita le baracche dell’Appio, consentono a don Roberto di resistere e di costruire una esperienza educativa, la Scuola 725, nella quale si formarono con sacrificio e tenacia i figli di quei migranti meridionali venuti a Roma per lavorare nell’edilizia o per fare le domestiche nelle case dei signori.

NATA ANCHE GRAZIE all’esperienza di don Milani, che Sardelli conobbe e frequentò, la Scuola 725 era un laboratorio di ricerca, di domande sul mondo, di scavo sulla parola, di dialogo franco a partire dalla vita di chi la frequentava. E il mondo, la vita, la parola sono cose complesse, non riducibili a formulette effimere, sono cose contraddittorie che richiedono silenzio, ascolto, concentrazione, tempi lunghi, verticalità analitica: in una parola, uno studio serio. Uno studio che nasceva dalla lettura del giornale, dall’approfondimento storico, politico, letterario, pedagogico che scaturiva da una «parola generatrice» o da un evento. Partire dalla descrizione della propria condizione di baraccati non era cosa facile. I bambini e i ragazzi che la mattina frequentavano la scuola di Stato, talvolta dentro le classi differenziali, si vergognavano di dire che venivano dalle baracche. Era una diversità insopportabile. Ma attraverso lo studio don Roberto riuscì a innestare in quelle menti un processo di «coscientizzazione» che richiamava il metodo educativo del pedagogista brasiliano Paulo Freire e l’appello alla serietà e fatica degli studi del marxista Antonio Gramsci. Si discuteva del perché nelle loro umide e malsane abitazioni non c’erano l’acqua, l’elettricità, il riscaldamento, e, insieme, si leggeva l’Autobiografia di Malcom X o si discuteva di Vietnam, Cina, India. La dimensione politica dell’insegnamento, sempre presente in ogni latitudine ma spesso sapientemente occultata dietro presunte «neutralità», era da don Roberto Sardelli programmaticamente affermata come il sale della relazione educativa che sempre contiene le fondamentali domande sul senso dell’esistenza e della storia e sulla direzione, l’orientamento che ogni soggetto si dà nella vita.

BEN COSCIENTE dei conflitti che tutto ciò suscita sia tra i potenti, la gerarchia ecclesiastica in particolare, che tra i gregari servili. Ad una domanda di Massimiliano Fiorucci sulla pericolosità del suo impegno, così risponde don Sardelli: «Per me era pericoloso, per loro era un tranquillizzante: “Stai tranquillo tu, stanno tranquilli loro, tutti quanti!”. Ma io questo non lo volevo. Gesù ha detto: “Che pensate che io sia venuto a portare la pace? Io sono venuto a portare la guerra, a mettere figlia contro madre, figlio contro padre”. Erano le parole di Gesù». Volendo con questo intendere, contro la buona coscienza assistenziale, contro la «pedagogia dell’oratorio», che solo guardando in faccia la tragicità delle contraddizioni e solo attraversandole si sarebbe potuto costruire un mondo migliore. E solo impegnandosi nella lotta politica per la trasformazione concreta del presente, come egli fece partecipando alle innumerevoli lotte per la casa che segnarono la storia di Roma di quegli anni. Perché anche nella lotta ci si educa.

LA PARTECIPAZIONE alle assemblee, il prendere la parola in pubblico, leggere e studiare documenti, confrontarsi con amministratori, urbanisti, politici per capire le ragioni del mancato diritto alla casa, è un percorso continuo di apprendimento.
Dall’esperienza della scuola nacque anche un libro di testo alternativo, Non tacere, che tra breve sarà ripubblicato a cura di Fiorucci e sempre dalla storica Libreria Editrice Fiorentina che lo editò nel 1971 e che è stata anche la coraggiosa voce editoriale della Lettera a una professoressa.

NELLE BARACCHE DI ROMA, come a Barbiana, la critica ai libri di testo è stata centrale, in particolare nella denuncia dei tratti nazionalistici, militaristici, colonialistici, eurocentrici presenti in quelle pagine, nella totale omissione della voce di «chi sta in basso», delle classi subalterne, nonostante le parole democratiche della nostra Costituzione. Sempre, secondo un’espressione molto bella utilizzata da don Roberto, per «dare consapevolezza alla fragilità».
Per concludere, due citazioni. Una di Massimiliano Fiorucci il quale ci ricorda che «oggi le baracche di allora sono state sostituite da altre baracche situate in altre aree della città, ma permangono nelle periferie situazioni di esclusione e i migranti non sono più gli italiani venuti dal Sud, ma una umanità dolente che fugge molto spesso da situazioni non solo di miseria, ma anche di guerra e di violenza».

C’È DA CREDERE che se don Sardelli oggi si trovasse a operare in una scuola di queste nuove periferie con i figli dei migranti e per spiegare le ragioni del calvario dei migranti, avrebbe forse fatto leggere queste parole tratte da un articolo di Chiara Cruciati sul manifesto del 10 settembre scorso in cui si riportano i crudi dati di una prestigiosa università statunitense sulle guerre condotte dagli Usa e dai suoi alleati (Italia compresa): «Dirompente è il rapporto che la Brown University ha reso pubblico intrecciando i dati delle agenzie internazionali (Unchr, Oim, Ocha, Idcm), raccolti dall’11 settembre 2001 al 2019: dall’inzio della cosiddetta guerra al terrore, i conflitti iniziati o partecipati dagli Stati Uniti in otto paesi (Afghanistan, Pakistan, Iraq, Libia, Siria, Yemen, Somalia e Filippine) hanno provocato 36.896.026 tra rifugiati e sfollati interni. Un numero immane e, come dice il rapporto, decisamente sottostimato: più probabile che si aggiri sui 59 milioni. Una popolazione pari all’Italia».
La seconda citazione è di Alessandro Portelli (che in appendice pubblica una sua intervista a don Sardelli), il quale riflette su quanto don Roberto dice sulla disgregazione della comunità dei baraccati una volta che furono loro assegnate le case a Nuova Ostia, dove trovarono altre marginalità: assenza di strade, scuole, fogne, illuminazione pubblica, servizi socio-sanitari.

SENZA INDULGERE a nessuna «nostalgia della baracca», scrive Portelli, «si tratta piuttosto della dolorosa coscienza di come per gli “ultimi” ogni conquista sia non solo pagata con pesanti prezzi umani, ma sia anche precaria e spesso deludente». E richiamando anch’egli il presente, ci ricorda che «il quartiere dove andarono a vivere gli ex abitanti dell’Acquedotto Felice è oggi il territorio emarginato e stigmatizzato di un quartiere “difficile” della periferia romana. Non è stata una storia a lieto fine; e non è ancora finita».
Infine, una sola critica si può muovere a don Sardelli, quando dice che Luigi Petroselli, sindaco comunista di Roma negli 1979-1981, era «molto bravo, ma un funzionario di partito e quindi con la malattia dell’autoreferenzialità». Un giudizio ingeneroso per quanti hanno conosciuto l’opera di Petroselli e la sua umanissima capacità di ascolto.