Una scena scura con sullo sfondo una consolle. Un uomo nero, vestito di bianco con felpa e cappuccio. Uno scontro coinvolge più persone, le urla riempiono le orecchie. Poi silenzio. Il gruppo si blocca in un fermo immagine. Si ode un suono di campane. «One, two, three, four, five….». Il movimento riprende come un respiro fatto di fiati solitari, chissà per cosa si lottava. forse per noia, forse per rabbia. Danze metropolitane scandite da una voce fuori campo che è quella del coreografo.
Su un grande piano  quadrato, appaiono parole in proiezione. «Caro nipote, a Ravenna è estate. Le cose non sembrano cambiate. Il cibo, il vino. I bellissimi mosaici… » Il piano bianco è spostato nello spazio, diventa tetto sulla testa di alcuni danzatori. «Mi sento un po’ confuso qui. Sono un migrante?», rileggiamo sulle scritte. «Lotti per l’indipendenza nella tua vita. Ti interessa chi è il tuo leader, come alla gente di qui? Come noi hanno da poco avuto strane elezioni».

È l’inizio di A Letter to My Nephew, uno degli ultimi lavori di Bill T. Jones, coreografo, regista, scrittore, danzatore afroamericano per cui il cammino nell’arte si lega da decenni alla riflessione politica. Un grande, capace di parlarci dell’oggi attraverso la trasformazione della scena teatrale in trasfigurazioni scomode del nostro tempo dove i temi di richiamo fluttuano nell’accostamento simultaneo tra la semplicità delle parole e l’articolazione coreografica di movimento e contesto.
Lo spettacolo è stato presentato in esclusiva italiana a Ravenna Festival al Teatro Alighieri, nell’ambito della tournée della Bill T. Jones /Arnie Zane Company, conclusa ieri sera al festival Bolzano Danza. A Letter to My Nephew (titolo ripreso da un testo del 1962 dello scrittore nero James Baldwin sul razzismo) si ricollega nelle tematiche a Analogy/ Lance: Pretty Aka the Escape Artist, seconda tappa della trilogia Analogy con cui negli ultimi anni Jones ha riflettuto attraverso più spettacoli su problematiche sociali/politiche come il rapporto con l’immigrazione.

Lance T. Briggs (chiamato anche LTB o Pretty) è il nipote di Jones, a cui la seconda tappa di Analogy e A Letter to My Nephew sono dedicate: danzatore e musicista, scrittore di canzoni e drag queen, escort e modello, «teppista-omo», come si dichiara cinicamente lui stesso nel messaggio video che chiude lo spettacolo di Ravenna. Un destino massacrato da droga e Aids, una vita di eccessi.
La struttura del lavoro è in parte mobile a partire da un fatto accaduto nel 2015.

Bill sta lavorando alla sua trilogia e al rapporto con il nipote, riceve un invito da Parigi. Decide di mettere in scena ciò che sta costruendo con i suoi danzatori e con i suoi storici collaboratori, lo scenografo e marito Bjorn Amelan, la co-direttrice artistica Janet Wong: il lavoro prende la forma di una lettera scritta dall’Europa al nipote, nella quale si intrecciano attualità e storia intima. La messa in scena parigina coincide con la notte della strage del Bataclan. Da allora A Letter to My Nephew rinasce modulando la sua storia in relazione con il momento e il luogo in cui è rappresentato.

A Ravenna la scena, nella sua nudità attraversata a terra da qualche dritta riga bianca, sembra catapultarci in un incrocio notturno di strade. La musica eseguita dal vivo da Nick Hallett con la voce del baritono Matthew Gamble è una fusione tra house, rap, blues, canzoni scritte da Lance come This is My Life o come l’ossessiva Walk for Me. Il linguaggio dei nove danzatori è un pulsante mix tra voguing, break, contemporaneo, in cui la vita di Lance, tra sfilate di moda e letti di ospedale, funge da sottotraccia per presentarci un’umanità che fatica a trovare la sua strada.

Bill mette in scena il disorientamento di oggi attraverso l’intreccio sfilacciato, mai risolto in un consolatorio compimento, di un andamento coreografico fatto di danze singole che diventano collettive per decomporsi all’immediato. È la coreografia, con lo stridere delle sue linee, che esprime la tensione di cui le parole sono spia. Straordinari i nove danzatori: in essi la storia di Lance si materializza e si frantuma per raccontarci non più il singolo, ma il disagio di una moltitudine