La maggior parte dell’arcipelago giapponese è da oggi di nuovo fuori dallo stato di emergenza, certo mancano all’appello le zone di Tokyo e Hokkaido, ma sembra che anche queste dovrebbero riaprire a giorni. Il pericolo di certo non è finito, incomincia adesso l’adattamento alla nuova normalità, quella di convivenza con il virus socialmente caratterizzata dai tre elementi da evitare: i posti chiusi, le conversazioni faccia a faccia ed i luoghi affollati, sperando che la seconda ondata della pandemia, quando arriverà, sia clemente. Queste nuove«regole» stanno cambiando e non di poco anche il panorama cinematografico giapponese, come abbiamo cercato di raccontare in questi ultimi mesi.

PASSO DOPO PASSO come un pachiderma che si risveglia da un lungo letargo, il sistema nipponico sta cercando di rialzarsi e tornare a funzionare, in un modo o in un altro. Molti cinema, multisala o indipendenti che siano, hanno riaperto i battenti proprio durante questa settimana, limitando naturalmente il numero dei posti occupabili, ma comunque gli spettatori che si avventurano nelle sale sono ancora pochissimi. Per ovviare ad una distribuzione completamente messa sotto sopra quando non praticamente inesistente, si sta ripescando nel passato della settima arte proponendo i film più disparati. Alcune sale hanno mostrato classici come Ben Hur e Il mago di Oz, altre Blade Runner e Shin Godzilla, o altre ancora hanno deciso di pescare nei lungometraggi animati proponendo ad esempio Your Name, il campione d’incassi di qualche stagione fa. Ma la scelta più di classe l’ha avuta il Museo di Kyoto, anche perché era in programma una retrospettiva a tema, che per la riapertura del suo cinema ha scelto uno dei film giapponesi più importanti e toccanti di sempre, Ninjo kamifusen (Umanità e palloncini di carta/Humanity and Paper Balloons) che Sadao Yamanaka diresse nel 1937.

È UNA STORIA CRUDELE quella che colpì il regista giapponese, autore di più di una ventina di opere giá prima dei trent’anni,un film che girò in poco più di sei anni, Yamanaka ricevette la lettera di arruolamento nell’esercito giapponese subito dopo la fine delle riprese di Ninjo kamifusen. Partito per la Manciuria morirà un anno dopo, a soli 29 anni, in un ospedale di campo, lasciando questo capolavoro come suo ultimo testamento. Della sua produzione oltre al film in questione, rimangono solo altri due lungometraggi completi e qualche frammento. Poco certo, ma quel che basta a trasmetterci la grandezza e il talento di Yamanaka che se non fosse caduto al fronte, sarebbe probabilmente diventato un autore paragonabile ai vari Kurosawa, Ozu e Mizoguchi.
Ninjo kamifusen è un dramma in costume, ambientato nel periodo Edo e che osserva e descrive la società dal punto di vista dei più poveri. Il film si apre con la notizia di un suicidio in un quartiere popolare, trattato come un accadimento di ogni giorno, e con la veglia che si trasforma in un’occasione per mangiare e bere a sbafo. In questa zona vive anche Unno, un ronin che, caduto in disgrazia dopo la morte del padre, gestisce con la moglie la vendita di palloncini di carta. Fra le angherie dei potenti e il cupo e triste destino dei più miserabili, non soltanto i più poveri, Yamanaka descrive un mondo dove le regole del bushido sono infrante o hanno perso ogni importanza. Una sorta di muta disperazione avvolge tutto e tutti come una pesante e fitta nebbia, personaggi che si muovono senza direzione bloccati nel proprio destino e dove la vita di ognuno, da quella del ronin fino a quella del giovane barbiere Shinza, è fragile ed insignificante come i palloncini di carta, i kamifusen del titolo.

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