Si può considerare Edgar Morin un ecologista? Sì e no. Certamente è stato un interprete geniale del pensiero ecologico, che è inequivocabilmente collegato dalla sua nascita al paradigma della complessità sul quale Morin ha costruito la sua proposta filosofica. La parola stessa «ecologia» nasce, a metà dell’Ottocento, come nome di battesimo di una nuova scienza che studia, appunto, la «complessità» del mondo, le relazioni tra le sue parti: scienza della vita e dell’ambiente inanimato, della natura e dell’uomo.

IN QUESTO SENSO è di sicuro un ecologista Edgar Morin, ma anomalo. Nel sottotitolo del libro appena uscito alla vigilia del suo centesimo compleanno – 100 Edgar Morin (Mimesis, pp. 444, euro 28), curato dal suo allievo più autorevole e amico fraterno Mauro Ceruti, che raccoglie 100 brevi suoi «ritratti» affidati a firme italiane – è definito «umanista planetario», e questa è senza dubbio una sintesi calzante della sua figura e della sua riflessione.
«Planetario» perché fino dalla sua biografia familiare – nato a Parigi da genitori ebrei di Salonicco con origini livornesi e lontane ascendenze spagnole – e poi con la sua idea di una «terra-patria» (titolo di un suo libro del 1994) come simbolo dell’inseparabile comunanza di destino dell’umano, Morin è un pensatore «del mondo».
«Umanista», qui è una obiettiva originalità del suo magistero ecologista, perché rifugge dalle immagini, care alle visioni biocentriche, di un’immobile natura originaria contrapposta a una cultura integralmente artificiale e irrimediabilmente antinaturalistica: «La vera realtà – scrive nel Metodo, la sua opera più sistematica – (…) è mista, vaga, multidimensionale: la vera realtà è l’eco-(bio-socio-)logia complessa costituita da eco-organizzazioni biologiche e sociali nelle quali l’urbano, il rurale, il selvatico si intersecano e interagiscono con interazioni complementari, concorrenti, antagoniste e incerte».

UN ALTRO AGGETTIVO assai efficace per descrivere il Morin-pensiero l’ha coniato lui stesso per autodefinirsi: otto-pessimista. L’ottimismo, così Morin, ci acceca sui pericoli, il pessimismo ci paralizza: bisogna pensare oltre l’ottimismo e il pessimismo. L’uomo contemporaneo si sta mostrando incapace di accogliere e gestire la crescente complessità del mondo, dai problemi ambientali all’aumento vistoso delle diseguaglianze sociali, però Morin rifiuta le narrazioni «catastrofiste». «Ci sono forze autodistruttive in gioco negli individui come nelle collettività, inconsapevoli di essere suicidi – ha affermato in una recente intervista – Fin dove arriveranno questi danni e quando avverrà una reazione, non si sa. (…) Potrà esserci devastazione, ma non vedo la distruzione della specie umana. La storia insegna anche come a un certo punto tutto sembri crollare, la romanità per esempio; poi da un processo multisecolare scaturisce qualcosa di nuovo e rivoluzionario. Siamo in un mondo incerto e possiamo immaginare un avvenire in cui intervengono forze catastrofiche, ma la probabilità non è mai certezza».

L’UOMO – ammonisce da tempo Morin, e qui torna di nuovo l’otti-pessimismo – sta facendo di tutto per devastare se stesso e il mondo del quale è parte, ma è anche a nostra speranza: «Nella storia umana i due sono inconciliabili ma inseparabili nemici che sono Eros e Thanatos continueranno ad affrontarsi, e Thanatos non riuscirà a distruggere Eros né Eros a eliminare Thanatos. Ognuno a turno prenderà il sopravvento. Oggi i più forti sono Polemos e Thanatos, ma non c’è eternità nella storia».

NELL’IDEA dell’essere umano di Edgar Morin, un’altra dicotomia ricorrente è tra Homo sapiens e Homo demens: nell’individuo convivono indissolubilmente razionalità e follia, rigore e insensatezza. Il destino della nostra specie – che nello sguardo di Morin non è affatto tutt’uno col destino biologico del pianeta: la natura può fare a meno di noi… – è legato alla capacità di Homo sapiens/demens di rifiutare una tentazione che l’accompagna da sempre: illudersi di dominare il mondo naturale. Scriveva quasi trent’anni fa in Terra-Patria: «Dominare il mondo? Ma è solo un microbo nel cosmo gigantesco ed enigmatico. Dominare la vita? Ma anche se potesse un giorno fabbricare un batterio, lo farebbe come un copista che riproduce un’organizzazione che non è mai stato capace di immaginare. (…) Può annientare dei virus, ma è disarmato di fronte a nuovi virus, che lo sfidano, si trasformano, si rinnovano». Difficile immaginare parole più profetiche.