Sbocciando in ampie campiture oppure contraendosi in tracce affilate, i Wall Drawings di Sol Lewitt si estroflettono dalla superficie architettonica della Galleria di Alfonso Artiaco, inondata dalla luce granulare e obliqua del primo pomeriggio di inizio ottobre. Il vigoroso pigmento nero fraziona il candore delle pareti, attenendosi a un calcolo rigorosamente distante dalle pieghe dell’individualismo, pur risultando non del tutto estraneo al presentimento del sublime. Il mondo delle cose è sveglio, geometricamente raggiante e vibrante di razionalità.
In occasione di Lines, Forms, Volumes 1970s to Present, mostra curata da Lindsay Aveilhé, editrice del catalogo ragionato dei Wall Drawings, la galleria napoletana ripercorre quarant’anni di intensa ricerca, compiuta dall’artista nato a Hartford nel 1928 e scomparso a New York nel 2007. Ordinata secondo un criterio cronologico, completata da fotografie, gouache e sculture, la retrospettiva, visitabile fino al 2 novembre, non solo compendia l’opera storica di LeWitt ma incrocia anche la stagione delle grandi gallerie italiane, dal progetto del 1975, per la Modern Art Agency di Lucio Amelio, a Napoli, a quello della Galleria Marilena Bonomo di Bari, nel 1982. Ma LeWitt espose anche all’Attico, a Roma, per la sua prima mostra italiana, nel maggio 1969, e poi da Gian Enzo Sperone, a Torino, da Ginevra Grigolo, a Bologna, da Massimo Minini, a Brescia. LeWitt nutriva per l’Italia una particolare affezione, già negli anni settanta ebbe modo di lavorare continuativamente nelle immediate vicinanze di Spoleto, dove poi acquistò anche casa. Di Wall Drawings, dal nord al sud della Penisola, ne avrebbe realizzati 297, non solo neri ma anche colorati, piani e isometrici, in gallerie, musei, spazi pubblici e abitazioni, dal Museo di Capodimonte al Centro Luigi Pecci di Prato, fino al Castello di Rivoli. Ed è attraversando l’alfabeto visivo tracciato da quelle linee, che si possono rileggere con chiarezza tutti gli indizi di una cruciale fase di svolta, nella storia dell’arte contemporanea.
Un sistema di pensiero armonico
Elaborato il dramma della seconda guerra mondiale con le declinazioni dell’informale e dell’espressionismo astratto, dalla ribollente massa degli Otages di Jean Fautrier, all’action painting coagulato di Jackson Pollock, negli anni sessanta la rinnovata società occidentale avvertiva ormai l’urgenza di rintracciare una vena espressiva alternativa, in grado di integrare la figura dell’uomo, le sue potenzialità e le sue pulsioni, al centro di un sistema di pensiero finalmente propositivo, armonico, simmetrico. A ristabilire l’ordine contribuì il vasto fenomeno dell’arte concettuale, instaurando una fervida dialettica con la coeva pop art. Con esiti diversi, entrambi i movimenti rimuovevano la minaccia della dittatura dell’egotismo, elevando a metodo la processualità, nel tentativo di spersonalizzazione dell’arte. Sedotti, in varia misura, da un sistema economico e produttivo rampante, del quale nel bene e nel male era impossibile non subire il fascino muscolare, artisti come Carl Andre, Donald Judd e Dan Flavin tentavano l’impresa di riconciliare l’estetica e la tecnica. La notte della tragedia, popolata da una gestualità irrazionale e scossa da esplosioni improvvise, si trasformava in un’alba di segni minimi, scandita da sequenze intersecate come in un meccanismo di precisione.
«Le idee non si possono possedere. Appartengono a chiunque le capisca», scriveva Sol LeWitt, che dell’arte concettuale e del minimalismo è stato anche un influente teorico. L’atteggiamento di LeWitt nei confronti della realtà e della sua descrizione potrebbe richiamare quello di un Piero della Francesca o di un Brunelleschi, fiducioso nella corrispondenza tra l’idea e la realtà, ambiziosamente antropico. Netta, virtualmente infinita ma tutt’altro che astratta, anzi, intuitiva e inequivocabile, un modulo con il quale organizzare lo spazio e il tempo per poi provare a viverci, è la sua linea, che appare vivida sulla parete, supporto efficace anche per la ieratica indifferenza superficiale, rispetto all’individualismo della tela, compromessa dalla sua porosità e dall’essenza oggettuale.
Straight lines from the upper left corner of the wall to specified points on the wall, recita il titolo/didascalia del Wall Drawing #241, che apre la mostra da Artiaco e che fu disegnato nel gennaio 1975 da Lucio Amelio, Nino Longobardi, Maurizio Mazzaglia e Mimi Wheeler, oltre che dallo stesso LeWitt, il quale realizzò di sua mano i primi wall drawings italiani, facendosi aiutare da «assistenti» reperiti sul luogo. E poi l’indicazione tra parentesi, The specific location of the points is determined by the drafter, così da svincolare il progetto dalla realizzazione, alleggerendo l’opera dalla presenza dell’artista, considerando che, in effetti, di opere di LeWitt non ne esistono molte, perlopiù nella forma di certificati che ne autorizzano l’esecuzione. Ma non si tratta di fredda perfezione da riproducibilità tecnica. Tra i segmenti del Wall Drawing #241 irradiati sul muro, in questa porzione iperdefinita e purificata di spazio, emerge la variabile umana del linguaggio, la linea è diventata scrittura, grafia e frase, grammatica e personalità. «Ci sono decisioni prese dal disegnatore all’interno del progetto che ne costituiscono parte integrante. Data la sua unicità, ogni individuo, avendo ricevuto le stesse istruzioni, le comprende e le esegue diversamente. L’artista deve consentire varie interpretazioni del suo progetto. Il disegnatore può commettere errori nell’eseguire il progetto. Tutti i wall drawings contengono errori, che diventano però parte del lavoro», scriveva LeWitt nel 1971.
L’idea del piano non è importante
Il groviglio indistinto del Wall Drawing #1146B, spheres lit from the left, dalla parete più estrema della Galleria Artiaco, fronteggia l’intera mostra, affermando la sua resistenza. Realizzato per la prima volta alla Galerie Meert di Bruxelles nel 2005, con i suoi intrecci asimmetrici, gli angoli smussati e gli esasperati ritmi chiaroscurali, sembra smentire la narrazione precedente. Con la serie degli Scribbles, intrapresa pochi anni prima della sua scomparsa, LeWitt aggiornava le coordinate, schiudendo la visione di un nuovo mondo fuor di sesto, fluido e senza centro. «L’idea del piano, almeno per me, non è più così importante», confidava a Adachiara Zevi nel 2006. Dal caos di un veloce ghirigoro, emergeva il segno laconico di una transizione in atto, tanto individuale quanto collettiva. Un salto vorticoso, simile a quello dal Rinascimento al Barocco, come è stato il turning point degli anni 2000, con le sue vicende, ancora una volta, tragiche ed esaltanti. E poi, poco più in là dalle alte finestre della Galleria, le persone continuano ad attraversare la città da chissà quanto tempo e quasi non ce ne eravamo accorti.