Fitto di intrecci inaspettati e di colpi di scena, il quinto romanzo che Iris Murdoch pubblicò nel 1961 e dal quale trasse una pièce teatrale nel ’64, esce in una nuova traduzione (di Gioia Guerzoni, a cura di Cristina Tizian, Il Saggiatore, pp. 251, euro 19,00). Una testa tagliata è una storia policentrica che si sottrae a interpretazioni univoche e semplificatrici ed esige una lettura circostanziata, lungo le traiettorie imprevedibili dei personaggi assediati dalla nebbia di Londra. Protagonista Martin, quarantenne commerciante di vino, sposato con Antonia che tradisce con la giovanissima Georgie.

Quando Antonia gli annuncia la sua relazione con Palmer, il suo psicoanalista e grande amico di Martin, l’uomo vede crollare in un attimo quel mondo ordinato che credeva di poter tenere saldamente sotto controllo. Altre rivelazioni seguiranno e i sette personaggi (tre uomini e quattro donne) che compaiono nel romanzo saranno coinvolti in un succedersi di mutamenti repentini quanto immotivati. Ciascuno muta aspetto, direzione, volontà come se un dio potente, cui nessuna forma può essere preclusa, scegliesse gli esseri umani e li gestisse a proprio piacimento come marionette.

La vicenda prende inizio dalla decisione di Antonia di rompere con il marito, e una delle chiavi del romanzo può trovarsi nel gioco delle coppie che si formano e si scompongono continuamente sotto i nostri occhi. Molto rilievo è stato dato alla figura enigmatica e sinistra di Honor, sorella di Palmer, che incombe come una divinità capace di rimettere in moto ogni situazione. Ma Honor, con il suo autocontrollo e la sua consapevolezza, è semplicemente la figura antipodale di Martin, che narra in prima persona e filtra dunque l’insieme degli eventi dalla sua prospettiva, così che il lettore crede di conoscerne pensieri, esitazioni e gesti. È un essere moralmente fluttuante, immerso in una sorta di nebbia che non è solo quella tipica della metropoli londinese, ma che si eleva a elemento simbolico della incapacità di vedere e di comprendere. Martin non riesce a imparare dall’esperienza. Di Honor non si sa nulla se non che ha tratti ebraici e manifesta la durezza di un angelo vendicatore, un angelo provvisto di spada. Quando lei compare qualcosa di irreparabile sempre accade.

Una testa tagliata è una commedia che sfiora con disinvoltura temi classici: l’amore, l’amicizia, la lealtà, la libertà, temi tuttavia attraversati in maniera del tutto irriflessa dalla maggior parte dei personaggi, segnati da un’evidente immaturità. «L’amore è la capacità di cogliere l’individuale. Amore significa comprendere», ha scritto Iris Murdoch in uno dei suoi saggi. Elemento cruciale nella narrativa e nella filosofia dell’autrice, l’amore è infatti la condizione che consente di uscire da sé, l’unica che permette di prendere coscienza di ciò che non è io e di instaurare con questa realtà esterna una relazione produttiva. Amore e conoscenza, eros e sapienza non risultano mai tanto prossimi come in Iris Murdoch, che ha scritto di sé: «Sono oscura a me stessa, non coincido con la mia vita», e ha dedicato la propria opera filosofica e narrativa allo spazio che intercorre tra l’accidentalità dell’esistenza, governata da strutture dure come divinità pagane, e la pienezza della vita e delle sue innumerevoli potenzialità.

Eppure questa è una commedia: si susseguono scoperte e colpi di scena che disattendono ogni aspettativa, si cambia casa o partner con leggerezza e facilità, gli amanti vengono abbandonati quando si ritengono all’apice della loro fortuna, si scoprono verità amare, ma nulla di drammatico accade, perché ognuno viene subito assorbito nel gioco di seduzione e di potere di un altro personaggio. Il vento delle passioni soffia dove vuole senza discernimento, e ben presto tutto diventa comico perché nulla ha maggiore durata di una sbronza o di un sogno. Joyce Carol Oates ha osservato che con la sua sequenza di delusioni e i suoi personaggi pasticcioni, la cosmologia di Iris Murdoch presenta una vita dopo tutto comica, per nulla tragica. Anche Una testa tagliata conferma che l’esistenza è nient’altro che una somma di pensieri e di atti ridicoli. «Non riuscivo ad immaginare che esistesse un essere onnipotente e senziente tanto crudele da aver creato il mondo in cui viviamo», riflette Martin che infatti si aggira senza meta in una realtà priva di fondamenti morali. Quando si trova alle strette sa solo vagheggiare il ritorno agli amati studi storici su Wallenstein e Gustavo di Svezia, e questo particolare costituisce un indizio significativo, per un verso comico vista la debolezza e la pochezza di Martin, per l’altro verso simbolico: perché allude alla violenza e agli intrighi delle battaglie che hanno luogo tra i personaggi del romanzo.

«La nostra immaginazione è immediatamente e continuamente al lavoro sulla nostra esperienza»: la nota risale al ’47 e aiuta a considerare con maggiore attenzione il sorprendente titolo del romanzo, che si riferisce alle teste che Alexander, lo scultore fratello di Martin, realizza prendendo come modelli familiari e amici. Di lui non conosciamo molto ma sappiamo che ottiene quello che vuole senza sforzi e le sue ‘teste’ rivelano la loro natura di elemento arcaico del potere. Mascherato dalle regole della civiltà, il primitivo agisce fino ad oggi e l’artista come un guerriero esibisce ciò che ha conquistato: in questo caso, una donna. Sebbene l’autrice presenti il personaggio dello scultore in una posizione defilata, proprio su di lui potrebbe convergere l’insieme delle storie, perché Alexander si rivela ben capace di muovere fili invisibili per far cadere la preda nella sua rete: un tema prossimo a quello dell’Incantatore.

Le storie di Iris Murdoch si sottraggono a una sistematizzazione ultimativa e anche questa resta di fatto incompleta e in gran parte inspiegata, a dimostrazione del fatto che la conoscenza razionale non arriva mai a cogliere per intero gli accadimenti della vita. Filosofia e letteratura tendono alla conquista della verità, che passa sempre attraverso il tessuto dell’esperienza, elemento decisivo su cui ha richiamato l’attenzione Luisa Muraro, quando – analizzando gli scritti filosofici di Iris Murdoch – ha dimostrato come per lei l’esperienza resti centrale e diventi autentica quando arriva a investire il piano simbolico e dunque ad accogliere l’impensato. Non possiamo infatti trascurare il fatto che i due personaggi cui spetta un ruolo cruciale, Honor e Alexander, sono gli unici a esibire il frutto della loro esperienza, e del loro potere, concentrandolo in un oggetto: la spada giapponese che Honor maneggia con perizia davanti a Martin, e la testa tagliata scolpita da Alexander: tramite questi due oggetti il lettore saprà che chi li possiede non ha vissuto invano e nel cuore della vita ha riportato un segno tangibile di vittoria.

Nell’ultima pagina del romanzo Honor evoca la storia di Candaule e Gige, riferita da Erodoto, misteriosa e truculenta nella sproporzione tra l’errore – mostrare la nudità della propria moglie a un estraneo – e le sue conseguenze, che sono la morte di Candaule e la conquista di un regno da parte di Gige. Tanto alta dunque la posta in gioco della sfida lanciata da Honor a Martin, a conferma del fatto che un’esperienza cruciale può comportare violenze non riparabili e, insieme, acquisizione e possesso.